Quest’anno alla Festa del Cinema di Roma si conferma la tendenza, non solo italiana, di attori che si cimentano dietro la macchina da presa sperando di eguagliare il successo di pubblico che hanno quando recitano. Palazzina LAF quindi è l’esordio alla regia dell’attore Michele Riondino che si unisce così alle sue colleghe Paola Cortellesi e Margherita Bui, entrambe neo-registe e presenti alla rassegna romana.
Quello della Palazzina LAF fu il primo caso di mobbing in Italia. La sceneggiatura di Riondino e Maurizio Braucci prende spunto dalle interviste fatte agli ex lavoratori ILVA “confinati” e dagli atti del processo che ha determinato la condanna dei vertici dell’azienda siderurgica e il successivo risarcimento delle vittime.
Palazzina LAF è una sorta di affresco sociale ed esce in sala il 30 novembre con Bim.

Caterino Lamanna, uomo rude, sfaticato e un po’ ingenuo vive con la giovane fidanzata in una masseria caduta in disgrazia per la troppa vicinanza all’impianto industriale dell’ILVA di Taranto dove lavora come operaio semplice.
Quando i vertici aziendali decidono di utilizzarlo come “canarino” per individuare i lavoratori scomodi di cui sarebbe bene liberarsi, Caterino inizia a pedinare i colleghi e a partecipare agli scioperi solo ed esclusivamente per cercare motivazioni per denunciarli.
Ben presto, non comprendendone il degrado, chiede di essere spostato anche lui alla Palazzina LAF, dove alcuni dipendenti, per punizione, sono obbligati a restarvi privati delle loro consuete mansioni. Questi lavoratori non hanno altra attività se non quella di passare il tempo ingannandolo giocando a carte, pregando o allenandosi come fossero in palestra.
Caterino scoprirà sulla propria pelle che quello che sembra un paradiso ozioso, in realtà non è che una perversa strategia dei vertici per piegare psicologicamente i lavoratori, spingendoli alle dimissioni.

Palazzina LAF è la storia di un caso giudiziario che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro: 79 dipendenti altamente qualificati furono costretti a passare intere giornate in quello che loro stessi hanno definito in tribunale “una specie di manicomio”.
Per la prima volta il confino in fabbrica fu associato a una forma sottile di violenza privata e per merito di questa sentenza il termine mobbing, ancora non riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico, fu finalmente introdotto.
Riondino propone un film sociale immerso nel mondo operaio, alla mente salta subito un richiamo alla poetica di Elio Petri, ma un paragone tra l’esordiente attore-regista e il premio oscar per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è davvero ingiusto. Tuttavia alcuni punti in comune possono essere individuati: la rabbia di Riondino nel mettere in scena questa vicenda e soprattutto il trasporto emotivo verso le microstorie (reali e riproposte) dei lavoratori condannati al confino.
Una vicenda industriale e umana, dove vediamo prima gli operai ammassati negli autobus che li portano in fabbrica e successivamente “spaccarsi la schiena” respirando un’aria malsana.
Il protagonistga, ad un certo modo rappresenta il declino della classe operaia: disinteressato alle condizioni in cui è costretto, focalizzato solo a guadagnare il più possibile col suo contratto a cottimo e perciò grato all’azienda che subdolamente lo sfrutta.
Il personaggio non si evolve fino a parteggiare per i suoi colleghi più “rivoluzionari”, ma in lui si instaura il sospetto che qualcosa di migliore sia possibile.
Nel finale lo vediamo tossire e stringersi il petto, forse ha smesso di fare il gioco dei potenti e forse si è guadagnato un posto in paradiso.