Sorprende davvero questo ultimo film di Aaron Sorkin intitolato Il Processo ai Chicago 7. Stupisce per come è diverso dai tanti altri film processuali, compresi quelli che da decenni ci han parlato di ingiustizie, della lotta per i diritti civili e di torti giudiziari che hanno interessato il “Magnifico Paese”.
28 agosto 1968, Chicago, convention del Partito Democratico, che di lì a poco cercherà senza fortuna di battere Richard Nixon alle Presidenziali.
Il movimento per i Diritti Civili, i reduci del Vietnam, i figli dei fiori, le Pantere Nere, ogni organizzazione attivista contro la guerra, contro il razzismo e per una riforma interna è in città e si prepara a manifestare, nonostante il divieto della Polizia. Una polizia che è tra le più razziste e belligeranti del paese, incoraggiata da una nuova amministrazione comunale che di lì a poco passera alla storia come la più eversiva e pericolosa della storia americana.
Non è la prima volta che questo processo, tra i più significativi della storia recente americana, finisce sul piccolo o grande schermo, ma di certo nessuno fino ad oggi era riuscito in modo così puntuale a mostrare sia la componente personale sia quella sociale, micro e macro di questo evento mescolati per far comprendere la dimensione storica di un paese che (ieri come oggi) pare non conoscere armonia sociale.
Film corale, sceneggiato in modo assolutamente coerente dallo stesso Sorkin, Il Processo ai Chicago 7 si dimostra davvero coinvolgente, ha un ritmo avvincente e riesce ad ottimizzare la funzione simbolica del racconto mediante un cast molto ispirato, nonché diretto con mano ferma.
Eddie Redamayne fa del suo Tom Hayden l’anima più lineare, politica e moderata (anche se non completamente) del movimento di quella sinistra caotica ma genuina che purtroppo era votata alla sconfitta. In lui rivive l’intellettuale e il programmatico della politica, l’uomo che calcola, pondera, si muove dentro il sistema riconoscendolo come macchina imperfetta, ma necessaria.
Agli antipodi invece i due hippie stralunati e simpaticissimi: Jerry Rubin e Abbie Hoffman, a cui donano molto lo stile recitativo di Jeremy Strong e di un Sacha Baron Cohen in stato di grazia, bravissimo a salire e scendere di tono e a non eccedere troppo nel suo gigioneggiare.
Visionari, idealisti, romantici e anarchici, hanno in Rubin il simbolo di una bontà e generosità incorruttibili, e in Hoffman invece l’altra faccia dell’attivismo, quella antisistema, senza mediazione, che non crede nella società e nelle sue strutture, che ne rifiuta regole e dialogo.
Il fronte attivista viene descritto per ciò che era: diviso, caotico, informe e di incontrollabile, ed essenzialmente connesso ad una realtà soprattutto bianca, mentre le pantere nere restavano fuori, sole a sopportare la pressione di un “sistema” che non si fece problemi a ricorrere all’omicidio per fermarle.
Il Bobby Sale di Abdul-Mateen II è da questo punto di vista un personaggio di enorme potenza, con il suo rimanere solo, isolato, senza difese, contro quel giudice Julius Hoffmann a cui un grandissimo Frank Langella dona una luce mediocre e fascista, ne fa simbolo di un sistema giudiziario malato perché ideologico, non bilanciato, succube di ondate politiche.
Ognuno dei personaggi è ancorato ad una visione di quei giorni, di quel processo, dei diversi lati con cui osservare la storia, come essa può essere interpretata, nonché della diversa natura della legge, di come essa differisca in modo profondo dal concetto di giustizia.
Il Processo ai Chicago 7 però, è soprattutto un film sugli ideali, sulla manifestazione del pensiero e del dissenso, sulla dimensione umana di chi in quei giorni del ’68, il famoso ’68, decise che non era più possibile fare parte della “vecchia” America, che non si poteva più assistere al macello vietnamita, al fascismo dell’FBI e alla persecuzione del dissenso politico.
Ci mostra quindi, in modo perfettamente comprensibile, l’anima di un paese diviso tra progressismo e conservatorismo agli antipodi, radicali, inconciliabili, ci fa capire da dove arrivi il Black Lives Matter, quanto esso non sia assolutamente qualcosa di nuovo, quanto piuttosto un irrisolto moto ciclico di una nazione dalla mille anime il lotta tra se, anche quando dalla stessa parte.
Si tratta di un cinema di impegno civile? Certamente. Ma il punto di vista interno, intimo e personale lo rendono sicuramente inedito nella sua finalità esplicativa e distante da una dimensione eccessivamente autocompiaciuta, retorica od eccessiva.
Frequente l’ironia, il dramma, così come mostrare che dall’altro lato, dall’altra parte della barricata, vi erano comunque persone oneste, perbene, avversari e non nemici, la cosiddetta “America silenziosa”, non estremista, ligia delle istituzioni a cui Joseph Gordon Levitt con il suo Richard Schultz rende il giusto omaggio.
Anche grazie a lui, nonché ad un Mark Rylance in stato di grazia, Il Processo ai Chicago 7 è in ultima analisi un film sulla complessità dell’animo umano e della visione rispetto al mondo circostante, alle azioni dei propri simili e della realtà.