Monos, presentato nella sezione Panorama della Berlinale 2019, segna il ritorno dietro la macchina da presa del regista colombiano Alejandro Landes dopo otto anni di assenza dagli schermi.
Acclamato a Cannes nel 2011 con Porfirio, l’autore colombiano, con Monos, presenta un lavoro di denuncia sociale che, mantenendo la cifra stilistica del precedente film, attinge a piene mani dalla letteratura di avventura, chiarissimi infatti i rimandi a Cuore di tenebra di Conrad (e di conseguenza ad Apocalypse now) e soprattutto al classico per ragazzi Il signore delle mosche di William Golding.
Acclamato da registi del calibro di Del Toro e Iñárritu, Monos ha ottenuto il Premio come miglior film al BFI – London Film Festival 2019, ed ha rappresentato la Colombia agli Oscar 2020 per la categoria Miglior film straniero.
Monos di Alejandro Landes: trama del film
Tra le impervie montagne delle Ande e la foresta pluviale, otto adolescenti, isolati dal mondo e dalla civiltà, si allenano, combattono e si preparano a diventare spietate macchine da guerra.
Quello che a prima vista sembra un campo estivo bizzarro, affascinante, ma crudele, in realtà è il triste scenario dove questi ragazzi, strappati alla famiglia e privati dell’identità, “giocano” a fare i soldati e portano avanti una delicata missione: controllare e proteggere la prigioniera che hanno con loro, una donna americana che chiamano semplicemente “Doctora” (Dottoressa).
Quando la Dottoressa scappa in cerca della libertà, l’equilibrio del gruppo e della micro-società che i ragazzi hanno costituito si sgretola e la missione più importante diventa la sopravvivenza.
Monos di Alejandro Landes: recensione
La nebbia e il freddo pungente che si palesa come vapore nel respiro dei giovani che si allenano nella lotta corpo a corpo apre questo film teso e feroce. Gli otto ragazzi hanno solo un nome di battaglia, non più una identità e nemmeno una umanità, stanno dimenticando le regole della società comune in favore di una legge più primitiva e di una morale costituita soltanto da loro.
Landes, all’inizio, sceglie di posizionarsi a distanza da questo gruppo e dalle sue leggi, ma mentre la storia si evolve, la macchina da presa abbandona i campi lunghissimi che mostrano l’asperità della location in favore di primi piani e primissimi piani quasi espressionisti.
I ragazzi combattenti di Monos, coperti di fango o truccati per incutere più timore in battaglia, spaventano e incutono timore, nei loro occhi traspare la crudeltà che gli ha strappato l’infanzia e al tempo stesso si coglie la dolcezza piena di speranza degli adolescenti. La regia punta attraverso la camera a mano a mostrare le ferite, il dolore e la paura, ma anche le insicurezze del gruppo sia quando si abbandonano a comportamenti tipici degli adolescenti come l’innamorarsi, sia quando questi giovani si picchiano senza esclusione di colpi.
La società che i protagonisti di Monos auto-costituiscono, come accadeva ne Il signore delle mosche, è incentrata sulla violenza e ha una struttura piramidale dove il capo al vertice decide per tutto il gruppo e soprattutto sceglie chi può vivere e chi deve morire. La natura selvaggia e bellissima opprime i protagonisti e mentre esterna tutta la sua veemenza diventando ancora di più minacciosa, all’interno dei ragazzi avviene lo stesso procedimento e regrediscono ad uno stato più primitivo e feroce.
Landes, con Monos, mostra una Colombia immersa in una natura incontaminata e florida e come nella risalita del fiume Congo in Cuore di tenebra, il viaggio attraverso essa diventa allegoria di quel malvagio potere che trasforma l’essere umano in un mostro, acuendo tutta la sua bestialità e spietatezza.
Monos è un film violento sia dal punto di vista fisico sia su quello psicologico, la storia sicuramente respinge per tema e crudeltà, ma da un lato innesca il meccanismo del guilty pleasure e quindi ne siamo attratti, vogliamo conoscere di più e scoprire fino a che punto i protagonisti saranno capaci di azioni violente.
La pellicola di Landes non è destinata a tutti, per vederla ci vuole uno stomaco robusto e abituato, ma l’inquadratura finale e alcune sequenze sono assolutamente da non perdere e hanno veramente il sapore del grande cinema e finalmente il piacere smette di essere colpevole.