Dragonheart, uscito in sala per la prima volta il 31 maggio 1996, ricopre un ruolo di assoluto rilievo tra le tante pellicole degli anni ”90 che ormai sono simbolo di quel periodo. Il film diretto da Rob Cohen conobbe un successo sia di critica che al botteghino, rimarcando che la creatività e la fantasia applicate alla settima arte possono non avere limiti, nel caso di Dragoheart supportate anche dalla maestria nell’utilizzo delle nuove meraviglie tecnologiche.

Erano passati tre anni dall’uscita in sala del fenomeno Jurassic Park (Steven Spelberg, 1993) e tutti si domandavano se e come sarebbe stato possibile superare l’effetto meraviglia generato dai giganteschi rettili che avevano letteralmente stregato il mondo.
La risposta arrivò con Draco, un altro enorme rettile creato dalla stessa maestria del pazzo visionario Phil Tippet che aveva fatto muovere anche i T-Rex e Velociraptor del cult di Spielberg.
Draco fu la prima creatura virtuale mossa da un software per l’80%, necessitò di una mole di lavoro 12 volte maggiore di quella impiegata per il tirannosauro di Jurassic Park e i risultati furono sorprendenti tanto quasi da far pentire la Universal di non aver investito di più nella produzione.

Dragonheart ebbe una genesi complicata: dal principio, gli sceneggiatori Charles Edward Pogue e Patrick Read Johnson fantasia, un progetto solido, un’idea vincente e una previsione di incasso rosea, ma tutto poteva essere compromesso degli effetti visivi allora quasi rudimentali e di certo non affidabili come oggi, altra incognita era la regia di Johnson che forse non avrebbe garantito uno stile adatto per il pubblico degli anni ’90.

Si vagliarono i nomi di Richard Donner e Kennet Branagh, poi venne scelto Rob Cohen. Dal primo momento tra il regista designato e il giovane Johnson iniziarono gli attriti per per decidere il mood del film: Johnson voleva qualcosa vicino allo stile di Terry Gilliam e più “british” nel cast e nelle maestranze, Cohen invece, seguendo la volontà della produzione, chiese ed ottenne gli americanissimi Dennis Quaid e Dina Meyer nei ruoli principali e portò il film verso qualcosa di meno onirico.

Con la mediazione della producer Raffaella De Laurentis e di Pogue il film prese un iter narrativo profondamente anglosassone, dominato da elementi del ciclo arturiano e dei miti nordici, abbandonando l’idea di Rob Cohen e della Universal di confezionare un’avventura fantasy fracassona (basti pensare che le alternative a Quaid erano Harrison Ford, Mel Gibson e Arnold Schwarzenegger, tutti divi dell’esagerato e auto-ironico action americano).

La meravigliosa creatura virtuale, a cui prestò la voce il mitico 007 Sean Connery (nel doppiagio italiano Gigi Proietti), viene svelata a poco a poco e sorprende per espressività e movenze. Tippett e la crew londinese della ILM crearono Draco unendo le caratteristiche dei dragoni cinesi a quelle delle viverne nordiche e persino ai grifoni e manticore della mitologia indo-europea.
La psicologia di Draco è inversa a quella del protagonista umano Bowen (Quaid): tanto avventato, viscerale, pieno di dubbi e amarezza Bowen, saggio, autoironico, comprensivo e volendo anche un po’ enigmatico il gigantesco rettile.
Si creò quindi una diade, una sorta di “strana coppia”: un cavaliere deluso dall’allievo divenuto Re e un drago in cerca semplicemente di sopravvivere (è l’ultimo della sua specie) e sotto sotto, di riportare il compagno d’armi a tornare a credere nei valori della cavalleria.

Dragonheart è considerato da molti l’ultimo vero fantasy vecchia maniera, che portava con sé quella dimensione visiva ed accattivante tipica del genere e che ancora oggi rende iconici titoli come Willow, La Storia Fantastica, Legend o LadyHawke.
Con Peter Jackson e la saga di Harry Potter, molti anni dopo si riscriverà completamente la natura del fantasy, ma gli elementi di Dragonheart sono ancora presenti soprattutto nel lavoro di Guillermo Del Toro, da sempre estimatore del cinema fantasy e horror che fu.

Malinconico, impreziosito dalla leggendaria colonna sonora di Randy Edelman, ricco di scene d’azione e battaglia mai gratuite o troppo inverosimili, il film di Cohen si è guadagnato la sua pozione tra i grandi cult di quel decennio, fornendo un punto di riferimento importantissimo per il genere e soprattuto non sembra invecchiato di un giorno.