Dieci anni fa usciva Rango, uno dei film d’animazione più belli e complessi degli anni 2000.
L’Oscar a Rango, come Miglior Film d’animazione, rimane uno dei più strameritati degli ultimi anni, specie se si considera che viviamo un’epoca in cui la famosa statuetta va, sempre, un po’ dove tira il vento (disneyano).
Scritto dal regista, Gore Verbinski, assieme a James Ward Byrkit e John Logan, Rango è incentrato sulle strane avventure di un camaleonte (doppiato da un bravissimo Johnny Depp) che smarrito in autostrada dalla sua “famiglia umana”, si trova perso nel deserto del Mojave, catapultato in una sorta di villaggio western abitato da talpe, ratti, topi, iguane e lucertole di vario genere.
Lì, per una serie di coincidenze e strane situazioni, resta coinvolto nella lotta contro la siccità, nominato sceriffo con il benestare del “tartarugoso” sindaco John, proverà letteralmente a far scorrere acqua nel deserto.
Ma è davvero pronto ad essere un eroe?
Rango è un film d’animazione completamente diverso da ciò che la Pixar, la Disney o le altre case di produzione ci hanno proposto in questi anni.
Il film si pone in modo assolutamente inedito nel mischiare generi cinematografici, elementi narrativi e tematiche, riuscendo a creare un universo a metà tra passato e presente, sperimentazione e classicità, senza però rinunciare ad omaggiare i grandi classici della settima arte, a cominciare dai western.
Verbinski si riconnette con il teatro e con sottile sfumatura classica a Goldoni: Rango è servo di due padroni (esattamente come i protagonisti di Leone) e indossa una maschera per diventare qualcun altro, si fa compenetrare al punto da diventare un’altra persona o forse (ed è questa la chiave del personaggio) toglie la maschera che aveva sempre indossato e si riappropria della sua vera identità, del suo Io più autentico.
Verbinski però non sa resistere a creare un film, che se da un lato naturalmente si collega ai grandi western della Settima Arte, dall’altro spazia anche in altri generi e grandi titoli.
La frontiera descritta da Leone, Corbucci e gli altri “eroi” degli spaghetti western, si fonde con quella di Ford, di Sturges e dei western/musical, ma quando la vicenda entra nel vivo, la fotografia e l’iter narrativo diventano più crepuscolari, strizzando l’occhio al filone dove giganteggia Lo straniero senza nome di Clint Eastwood, l’irriducibile regista reso famoso da un sigaro.
Il piccolo gioiello di animazione che è Rango è sicuramente un film fatto di rimandi e citazioni da Leone (il più presente senza dubbio) al primo Kurosawa, dai fratelli Coen alle serie TV western, fino a Star Wars…ma sono amalgamate a tal punto da essere la vera e propria identità del film.
L’identità, dal punto di vista dei personaggi, è la malta che li tiene uniti e li fa funzionare: lo spettatore non sa chi è Rango, neanche egli stesso sa chi sia veramente o cosa voglia essere, allo stesso modo l’intera collettività cerca il suo scopo e la sua essenza.
Il protagonista che non crede in se stesso, ma si ravvede, era stata affrontata precedentemente da Verbinski in The Weather Man, in questo western il regista e produttore americano inserisce anche la politica, la critica sociale e l’amarezza e il disgusto verso il “Sogno Americano” diventato incubo per molti.
Il Sindaco, la vecchia tartaruga, altro non è che uno speculatore, un banchiere viscido e manipolatore, che usa la paura, le fake news, l’inganno e i desideri di riscatto dei suoi cittadini per accumulare potere, denaro, schiacciare chiunque a chiamare tutto questo “Progresso”.
Nel descrivere attraverso allegorie (Il sindaco è chiaramente un viscido banchiere manipolatore) tale realtà storica, Rango fondamentalmente ci ricorda che il consumismo e l’avidità hanno ucciso il West e continuano a mietere vittime. Ma vi è in realtà un altro nemico, ben più insidioso: noi, incapaci di ribellarci per paura di cambiare le nostre vite, noi che, come Rango, preferiamo restare nella boccia a vivere una vita alienata e virtuale.
Rango è un film d’animazione che abbraccia un percorso quasi astratto eppure tremendamente familiare e porta senza filtri, schietto, il suo messaggio di coraggio nell’affrontare a viso aperto la vita e non nascondersi nella propria ombra.