Grazie ad Ombre Rosse, John Ford è entrato nella storia del cinema riscrivendo il Western

Nel 1939 escono diversi titoli, ormai classici del cinema, che parlano della frontiera e dell’America di fine ‘800, tra essi ricordiamo Via col Vento, il kolossal melò per antonomasia, la Via dei Giganti di Cecil B. De Mille, Jess il Bandito di Henry King. Il 2 febbraio di quell’anno, a Los Angeles, vi è invece la prima del nuovo film di John FordStagecoach (Ombre rosse).

Senza ombra di dubbio il western non solo più importante ma anche più rivoluzionario di quel periodo perchè  capace innalzare ad opera d’arte un genere che fino a quel momento era visto soprattutto come intrattenimento popolare.
Ombre Rosse ha cambiato tutto ed ha influenzato i generi più disparati, ha creato un “prototipo” di narrazione cinematografica, che è stata ripresa per decenni e che ancora oggi è possibile ritrovare in tantissimi film.
Vi è un prima e un dopo a questo mondo, e di sicuro il film di John Ford ha rappresentato lo spartiacque tra prima e dopo non solo del western.

C’è da precisare che il western, alla fine degli anni ’30, era considerato abbastanza in disarmo e ancora troppo legato all’iconico volto di Tom Mix e a tutta l’età del muto. Ford scelse l’Arizona del 1880 come ambientazione in cui dipanare la trama del suo film e cambiare per sempre il western.
I magnifici paesaggi di un’Arizona assolata, ostile e selvaggia, vengono glorificati da una fantastica fotografia di Bert Glennon, diventano oceano di sabbia e rocce dentro il quale quella diligenza si aggira come una zattera sospinta dal destino e l’unico che può cambiarlo ha il volto di John Wayne, al secolo Marion Robert Morrison.
Al suo posto i produttori volevano il ben più attraente e lanciato Gary Cooper, Ford invece sapeva che il suo Ringo non poteva essere Cooper per via della sua faccia da eroe romantico e del suo fisico alto e slanciato, serviva qualcuno che riuscisse, anche solo con una espressione, ad essere tormentato e al tempo stesso virile, un eroe diviso a metà.
In Ombre Rosse, tutti e nove i personaggi (divenuti col tempo prototipi per ogni altro film western e non solo) sono ambivalenti: tutti hanno un segreto, non si sa precisamente chi sono veramente, si nascondono in piena luce, tra loro sono divisi da ricchezza, casta sociale e vissuto…ma davanti al pericolo, al nemico esterno, tutto viene dimenticato e ogni differenza superata per resistere ad esso. Significativo, dunque, è come viene affronto l’elemento della maschera e dell’identità, tutto viene messa a soqquadro, e il mondo borghese scopre che non può, da solo, sopravvive alla verità della frontiera.

Ombre-rosse-john-ford-john-wayne

L’antagonista di Ombre Rosse ha un nome: Geronimo, indomito condottiero degli Apache, che furono un incubo per decenni per ogni uomo “civilizzato” che partiva alla conquista dell’ovest.
Il nemico viene solo evocato: non lo vediamo, ne comprendiamo la ferocia e la pericolosità attraverso i racconti e la paura che traspare dai nove passeggeri della diligenza.
Anni dopo, questa maniera di raccontare fu ripresa da Spielberg in Jaws e Demme ne Il Silenzio degli Innocenti.

Per gran parte del film. gli Apache sono un suono, una voce spezzata dal terrore, una ingombrante presenza e, infine, li vediamo come cavalieri formidabili e guerrieri senza paura, con volti scavati dal vento e dal sole, rotti ad ogni insidia, un tutt’uno con quel deserto e con quella pianura, la personificazione del male e dell’ignoto. John Ford, da patriota integerrimo e figlio di quell’America in difficoltà, sposa il punto di vista conservatore dei suoi personaggi e quindi i nativi appaiono solo come dei crudeli selvaggi.

La regia rende il viaggio della diligenza un iter intimo ed assieme universale, sublimato da un inseguimento finale che, a decenni di distanza, non ha perso nulla del suo magnetico fascino, dell’energia incredibile che sa regalare e della tensione che alimenta, senza essere pesante o retorica, una dimensione action che culmina con l’ormai classico “arrivano i nostri”.
Ford, usando come base La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox e Boul de Suif (Palla di sego) di Guy de Maupassant, struttura un racconto in cui ogni personaggio, ogni interazione fisica o di sguardi, ha un preciso scopo e una finalità che rimandano ad un ritratto della società americana fatto di pregiudizi e difetti, ma che ha una inesauribile fiducia nell’uomo, nella parola data, nel riscatto e nel fare fronte comune.

La carrozza diventa metafora della vita, simbolo universale dell’esistenza, che affrontando pericoli, insidie, errori di valutazione, maturara, va oltre le apparenze  sconfigge le paure; il viaggio diventa un percorso di formazione sia morale che civile, una occasione attraverso la quale ognuno dei personaggi è costretto a guardarsi dentro, a mettersi in gioco ed in discussione.

La regia di Ford crea una nuova concezione dell’immagine cinematografica, ne esplora le potenzialità descrittive, fa comprendere come l’immagine rimanga (a dispetto del sonoro) la grande protagonista. Ombre Rosse riesce ad evitare il manierismo in ogni sua sequenza e Ford in fondo sfrutta il mezzo cinematografico come veicolo politico per parlarci del New Deal e dell’America delle persone comuni, superiore a quella fallimentare del Proibizionismo che aveva reso, in quegli anni, il “Magnifico Paese” una landa non meno selvaggia, violenta e disperata di quella degli Apache.
I peggiori selvaggi, ci ricordò Ford in quel 1939, hanno indossato sovente una cravatta.