A 65 anni di distanza, Sentieri selvaggi di John Ford resta un’opera di incredibile fascino e immutata potenza.
Chi studia cinema e chi è appassionato di film, parlando di John Ford, non può che mettere Ombre Rosse in cima alla lista dei film più importanti del magnetico e leggendario regista. Scorrendo la lista delle 126 opere dirette da Ford, però compare anche Sentieri selvaggi, uscito nel 1956 in Technicolor e che ancora oggi è uno dei western più complessi ed esteticamente appaganti di sempre.
Ambientato nel Texas post guerra di Secessione, Sentieri selvaggi vede come protagonista il reduce Ethan Edwards tornare a casa per ricongiungersi con il fratello Aaron e la sua famiglia.
Nel viaggio di ritorno si unisce ad una improvvisata banda di volontari e finiscono in un tranello dei comanche comandati dal feroce Scout. L’imboscata era un diversivo per occupare i soldati mentre gli indiani facevano razzie nei ranch del territorio. Infatti, quando Ethan mette piede sul suo terreno, trova la famiglia trucidata. Le uniche a scampare al massacro, perché rapite dagli indiati, sono le giovani nipoti Debbie e Lucy. Ethan cerca vendetta e vuole liberare le figlie di suo fratello, ma presto trova anche Lucy morta e quindi la flebile speranza di salvare Debbie lo costringe, insieme all’ingenuo nipote Martin, ad una vera e propria odissea.
Ispirato al reale episodio del rapimento di Cynthia Ann Parker, poi divenuta madre del leggendario capo indiano comanche Quanah Parker, Sentieri selvaggi a suo tempo lasciò stupiti se non interdetti gli estimatori di John Ford, sia per la complessa sceneggiatura, sia per l’inusuale evoluzione dei personaggi, le cui ambigue interazioni non furono inizialmente comprese da tutti.
La struggente bellezza della Monument Valley, dell’Alberta e del Colorado, sono lo sfondo per un iter narrativo in cui Ford unì la dimensione della tragedia greca a quella shakespeariana, dirigendo un magistrale John Wayne dilaniato da dubbi, bugie e sensi di colpa, che vede nella violenza e nella vendetta, in maniera che oggi definiremmo patologica, la sola strada percorribile per mettere a tacere i suoi demoni.
Ethan ha un odio atavico e profondo verso i nativi americani che non considera neppure esseri umani, disprezza per quasi tutta la narrazione il nipote Martin (il bravissimo e sfortunato Jeffrey Hunter) solo perché di lontane origini indiane e si aggira per un west selvaggio e impietos, alla ricerca più che della nipote, di se stesso e della sua perduta anima.
Ford, più che l’elogio dell’eroe solitario, ne decostruisce l’infallibilità, lo rende un essere fatto di silenzi e di verità inconfessabili come il desiderio represso di un amore impossibile con la cognata. La famiglia è un ideale a cui aspirare per l’eroe ma non una realtà della sua vita. La porta si apre e si chiude su quel mondo del focolare, Ethan resta sull’uscio, come nella celeberrima e citatissima inquadratura finale, perché sa che quell’universo non gli appartiene, può ambire solo a preservarlo e difenderlo dai nemici.
La vendetta, o per dirla alla maniera dei cow-boy il revenge, è il filo conduttore di Sentieri selvaggi.
La colpa del protagonista è quella di essere nato in quel periodo storico e di non aver saputo proteggere la famiglia che intimamente sognava potesse essere la sua. La vendetta va placata contro i nativi, che Ford ci mostra sotto una luce di realistica monodimensionalità: sono selvaggi che colpiscono con il favore delle tenebre, prendono lo scalpo ai loro nemici, odiano e temono l’uomo bianco.
Già nel ’56 Ford fu accusato di razzismo (oggi il film avrebbe almeno 5 o 6 disclaimers all’inizio), ma egli stesso ammise la parzialità in modo dichiarato e coerente, palesando l’incomunicabilità tra due mondi che non avevano nulla in comune né volevano averlo.
Eppure, Sentieri selvaggi mostra anche la vita miserabile, i lutti e l’umanità di quel periodo storico. Scout ed Ethan sono uguali: entrambi odiano, entrambi credono nella violenza e non mostrano alcuna pietà per il nemico che ha causato loro lutti imperdonabili.
Sentieri selvaggi sposa il punto di vista dei coloni: gli uomini impegnati nella conquista dell’ovest dovevano vedersela con un nemico subdolo, fare i conti con un terrore primordiale ritmato dai tamburi lontani, dai canti di guerra e dai segnali di fumo all’orizzonte. Tuttavia Ford mostra anche l’umanità, il dramma, la crudeltà e le idiosincrasie dei cavalleggeri che lo stesso regista aveva glorificato nei precedenti film e che non appaiono meno selvaggi dei pellerossa.
Ethan odia al punto il nemico da preferire Debbie morta piuttosto che ancora nelle mani dei selvaggi, per lui uccidere la nipote equivale ad espiare il suo peccato e la sua colpa e togliersi l’onta di aver “tradito” l’onore della famiglia.
Nel mostrare ciò, Ford ci rivela la natura universalmente tribale dell’uomo, ancora intatta a dispetto del telegrafo, delle armi da fuoco e del ruvido galateo del Sud, Debbie dove essere uccisa in quanto futura procreatrice dei figli del nemico. Ma il film, sorprendendoci ancora, ci mostra che per una volta è l’”allievo” Martin ad insegnare qualcosa al suo severo mentore, a fargli capire che quella ragazza è tutto ciò che gli resta e che sopravvive del focolare che non fu capace di difendere.
Meraviglioso nella fotografia, così come nella regia, con una colonna sonora a dir poco perfetta per come si coniuga con ogni fotogramma della narrazione, Sentieri Selvaggi distrugge persino quell’epica cavalleresca che in molti avevano trovato nel genere western, oltre all’ideale di nobiltà e cavalleria anche il sentimento amoroso è rimpastato e rivoluzionato: l’amore è una lunga e atroce attesa che può essere spezzata dalla morte o dalla noia, è solo il voler dare un senso alle stagioni che passano tra persone disperate e infelici.
L’avventura e il viaggio dell’eroe, diventano prima condanna, poi espiazione, non vi è spazio per l’ironia o la felice scoperta del mondo, i protagonisti della monumentale opera di Ford sono incatenati ai morti e alla speranza, costretti a vagare per anni senza un motivo evidente.
In conclusione la frontiera sembra nel pieno della sua epopea, e invece già si avvia a finire, Ethan è l’ultimo alfiere di un mondo fatto di libertà e forza che cede al concetto di proprietà privata, alla civiltà che proprio lui e gli uomini come lui hanno contribuito a far nascere nel sangue, si allontana verso un orizzonte ristretto, mentre la porta si chiude, in fondo è uguale al suo nemico e a tutto quello che ha ucciso e distrutto, è destinato a scomparire per sempre come i suoi demoni che ora albergheranno nell’animo dell’uomo bianco civile.
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