La Berlinale, si sa, è da sempre attenta a questioni attuali e spesso delicate. Accade sovente, infatti, che vengano insigniti del prestigioso Orso d’Oro lungometraggi o documentari che hanno osservato da vicino o realtà di cui si è parlato molto (ma che, di fatto, in pochi possono dire di conoscere realmente) o addirittura universi quasi totalmente sconosciuti ai più. Questo è il caso, ad esempio, della clinica psichiatrica parigina Adamant, protagonista del documentario Sur l’Adamant, appunto, diretto dal regista francese Nicolas Philibert e premiato con l’Orso d’Oro alla 73° edizione del Festival di Berlino.

L’Adamant, dunque, si trova proprio sulle rive della Senna, in centro città. E già dalla sua particolare sede ci sembra quasi un posto sospeso nel tempo. Proprio come stanno a dimostrare suggestive e contemplative inquadrature che ce la mostrano nella sua placida tranquillità in un caldo pomeriggio estivo.
Nicolas Philibert, dal canto suo, ha optato per un approccio registico minimalista ma efficace, dimostrandosi sì vicino ai personaggi da lui di volta in volta incontrati, ma mantenendo, al contempo, un necessario distanziamento atto a mostrarci i fatti in modo obiettivo.
Nella zona di ristoro e di condivisione della clinica, numerosi pazienti si sono riuniti al fine di assistere all’esibizione di uno dei loro compagni, il quale, appunto, si accinge a cantare una canzone “che necessiterebbe di un accompagnamento con la chitarra elettrica”. Successivamente, il regista (insieme al tecnico del suono Érik Ménard) si rivolge direttamente a ognuna delle persone presenti, lasciando che le stesse si confidino davanti alla macchina da presa, rivelando il loro passato, i loro sogni e le loro paure.

In Sur l’Adamant, dunque, tutto ci viene mostrato senza filtro alcuno. Capita sovente, addirittura, che i personaggi intervistati si rivolgano direttamente alla piccola troupe cinematografica, ponendo anche, a loro volta, domande personali. Primi piani di volti sofferenti e di sguardi che, pensierosi, ricordano dolorosi momenti passati divengono immediatamente i protagonisti assoluti. E mentre ricordando tali momenti non esita a scendere qualche lacrima, ben più liete sono le scene in cui, mostrando alla telecamera, ai propri assistenti e ai propri compagni i propri disegni, già si fantastica su una imminente gita allo zoo con la propria figlioletta.
Sur l’Adamant punta, dunque, direttamente all’essenziale. Un ruvido realismo, al contempo, ben si sposa con uno spiccato lirismo di fondo. La quasi totale assenza di musiche (fatta eccezione per musiche prettamente diegetiche) e la scelta di relegare le poche didascalie soltanto all’apertura e alla chiusura del documentario contribuiscono a farci sentire immediatamente parte di quel mondo totalmente fuori dagli schemi, in cui si punta innanzitutto al benessere dei pazienti, in cui approcci e cure innovativi si rivelano, spesso le soluzioni migliori, in cui ci rivolge all’essere umano prima che al malato.
Nicolas Philibert ci ha mostrato tutto ciò in un documentario sincero e ben studiato nella sua messa in scena. Il suo Sur l’Adamant, pur non spiccando all’interno del ricco e variegato concorso berlinese, è indubbiamente un lavoro estremamente raffinato e ben pensato. Una finestra su un mondo di cui, almeno fino a oggi, in pochi hanno sentito parlare.