Recensione in anteprima di Cena con delitto – Knives Out di Rian Johnson, film di chiusura del TFF37 in uscita nelle sale dal 5 dicembre.
E se uno scrittore di romanzi gialli diventasse protagonista di un suo whodunit?
La mattina dopo la festa per il suo 85° compleanno un uomo viene trovato morto nella sua proprietà. Quell’uomo è Harlan Thrombey (Christopher Plummer) romanziere ed editore di successo ma anche patriarca di una caotica famiglia allargata. Con una ferita al collo e un coltello in mano, tutto fa pensare a un suicidio, ma il detective privato Benoit Blanc (Daniel Craig), che collabora alle indagini della polizia locale, intuisce che si tratta di un omicidio. Quando cominciano gli interrogatori tutti i membri del clan Thrombey sembrano avere un movente per il delitto: dai figli Linda (Jamie Lee Curtis) e Walter (Michael Shannon) che ne amministrano gli affari alla nuora Joni (Toni Collette) che cerca di mantenersi a galla con il suo business new age, dal genero mantenuto Richard (Don Johnson) al nipote cinico e viziato Ransom (Chris Evans). Con un’eredità che fa gola a ciascuno di loro e una giovane badante figlia di immigrati irregolari (Ana de Armas) indotta a smascherarne i segreti, i sospettati si dibatteranno fra menzogne e reticenze fino alla scioccante rivelazione finale.
È un giallo da manuale serrato e avvincente che rinverdisce la tradizione del murder mystery alla Agatha Christie il nuovo lavoro di Rian Johnson (Looper, Star Wars: Episodio VIII – Gli ultimi Jedi), Cena con delitto – Knives Out. Una rivisitazione moderna e intelligente di un genere démodé che, dopo il mediocre adattamento di Assassinio sull’Orient Express firmato da Branagh, sembrava aver esaurito definitivamente il suo fascino. Armato di un cast all-stars impeccabile e affiatato, Johnson raccoglie invece il testimone manipolando con sguardo attento e una buona dose di ironia le regole ferree del poliziesco. Al centro un enigma da risolvere in stile Cluedo che non avrebbe sfigurato in quella che Dame Agatha amava definire «la mia fabbrica di salsicce».
Ciò che salta fuori dalla scatola da gioco di Knives Out sono gli stereotipi che hanno consolidato la fortuna dei maestri del brivido tra una coltellata e una tazza da tè: il maniero di campagna neogotico zeppo di lugubri meraviglie (fra cui l’iconico “trono di coltelli” che riecheggia quello di spade ben noto), l’investigatore gentiluomo che arriva alla soluzione del caso grazie alla sua mente prodigiosa, la cerchia di sospettati appartenenti a generazioni contrapposte fra loro per età e stili di vita, la testimone ignorata da tutti e l’outsider di turno che rimescola puntualmente le carte.
Johnson si diverte a sovvertire le regole pur mantenendosi nel solco dei grandi classici del passato. Così se l’impressione iniziale è quella di una ricostruzione logica del crimine in cui ogni sospetto è una pista e ogni incongruenza un indizio, il regista dissemina continuamente oggetti, citazioni (la più scoperta è quella della mitica Signora in giallo di Angela Lansbury) e colpi di scena con più avvitamenti a spirale di un apribottiglie per depistare il pubblico e tenerlo incollato alla poltrona fino all’ultimo.
In questa accurata operazione di ribaltamento parodico il Benoit Blanc di Craig con l’inflessione lenta del Tennessee è dunque infallibile ma anche umanamente imperfetto. Il teatro di marionette di casa Thrombey è mosso solo in apparenza da una vittima-burattinaio che ne tira le fila anche dall’aldilà. E i presunti assassini, riuniti in una stanza e osservati come cavie da laboratorio davanti al caminetto, si concedono qualche fuga o rigurgito imprevisto di fronte alla verità.
Non manca nemmeno l’aggancio con l’attualità nella grande famiglia “disfunzionale” di Johnson. Quello che offende di più di questa dinastia di ricchi sfaticati dell’upper class trumpiana non sono infatti i diritti acquisiti che abbracciano per perpetuare il loro privilegio, ma l’indignazione finta che li spinge a favore della ragazza immigrata fin tanto che non dà fastidio a nessuno. Alla fine le divisioni sociali, politiche e di classe, divenute terreno fertile per la comicità dei dialoghi, si annullano nell’egoismo che li accomuna tutti. Come a dire che la ragione potrà avere la meglio sulle forze del caos e ristabilire l’ordine per un po’. Quantomeno fino al prossimo delitto.