Bene ha fatto il regista Pedro Almodovar, in occasione dell’apertura dell’ultimo festival di Cannes in veste di presidente della giuria, a dire che non bisognava premiare i film destinati al solo canale Netflix e questo perché per lui il cinema significa grande schermo. Per il regista spagnolo i personaggi di un film devono essere di dimensioni più grandi dello spettatore che li guarda, insomma essi devono dominare il pubblico invece di essere dominati da esso che può vederli rinchiusi in un schermo assai ridotto tipo una finestrella sui vari dispositivi mobili e multifunzionali adesso in uso. Parole da condividere poiché riflettono l’essenza stessa del cinema, un’arte dove lo spettatore deve immergersi nella storia come se entrasse in un altro mondo che è quello della fantasia e del sogno. In un film gli eroi, tutti gli eroi quelli positivi e quelli negativi, devono sovrastare dall’alto del grande schermo coloro che guardano dalla loro poltrona in platea in mezzo a tanti altri spettatori nel buio della sala. Un panorama proiettato su grande schermo è un universo tutto da esplorare nei minimi dettagli con l’occhio che scorre da un punto all’altro di una composizione figurativa predisposta in modo non casuale dal regista in funzione del racconto (come accade nei western classici di John Ford e di Anthony Mann e come si vede anche all’inizio del western postmoderno di Tarantino The Hateful Eight girato su pellicola 70 mm). Dominati dai corpi giganteschi degli eroi che agiscono sul grande schermo noi spettatori siamo formiche soggiogate da creature mitologiche che incarnano gli archetipi collettivi che abitano il nostro inconscio. In una pagina del romanzo Americana Don DeLillo spiega così questo effetto:
”Da ragazzo avevo visto Burt in Da qui all’eternità. Sdraiato Insieme a Deborah Kerr sulla spiaggia hawaiana. In quel momento, per la prima volta nella vita, mi ero reso conto del vero potere dell’immagine. Burt era come una città in cui noi tutti abitiamo. Nel confluire dell’ombra e del tempo c’era spazio in abbondanza per tutti, e nel pensarlo capii che dovevo estendermi di più fino a separare ogni molecola e fondermi all’interno di quell’immagine”.
Sul grande schermo i corpi dei divi sono monumenti che restano scolpiti nella nostra memoria, sono i nuovi totem della modernità.
La dimensione magica del cinema ha bisogno del grande schermo per manifestarsi mentre si perde negli schermi formato francobollo dove il film diventa tutt’al più un promemoria di film privo di risonanze affettive e visive. Per usare la distinzione di Chatman in questi c’è traccia della “storia” ma non del “discorso”, proprio come accade a un riassunto dell’Odissea rispetto al poema completo. Gli attori devono apparire più grandi degli spettatori, anche quando essi nella realtà sono più piccoli di essi (come accadeva nel western classico nel caso di divi come Alan Ladd o come accade oggi nel caso di Tom Cruise). Non si può entrare emotivamente dentro una storia se essa è racchiusa in una scatoletta portatile e questo perché sul grande schermo i film danzano mentre sul piccolo si agitano soltanto.
Voler ridurre il cinema a un videogame significa uccidere l’arte più meravigliosa del nostro tempo per sostituirla con una copia bastarda di essa acquistabile al supermercato laddove la visione di ogni film uno deve guadagnarsela come se fosse un bene prezioso. L’anima autentica del cinema abita oggi nelle sale di quartiere ancora funzionanti da scoprire, luoghi dove si attiva la magica proiezione-identificazione con gli eroi (e con la cinepresa) peculiare del cinematografo, a differenza di quanto avviene su un canale come Netflix che sta avanzando micidiale nel mondo con la sua offerta di prodotti da banco “pluridose” predisposti da un’industria nemica giurata di quella poesia di cui il grande schermo non è mai stato avaro.