Diceva un famoso scrittore di gialli che se in un romanzo si accenna a un chiodo infisso a una parete, quel chiodo dovrà avere un ruolo nello sviluppo successivo della storia. La stessa cosa vale anche nel cinema dove tanti sono gli oggetti inquadrati che acquisteranno una funzione chiave nel racconto, oggetti comuni che sono visti di sfuggita la prima volta, ma poi sono ripresentati con una maggiore evidenza che dovrebbe allertare lo spettatore attento. Tanti sono questi oggetti, anzi in teoria tutti gli oggetti esistenti possono assolvere a un ruolo evocativo e non soltanto decorativo.
Ricordiamo, comunque, il telefono nero ripreso in primo piano in una scena di Delitto perfetto (Alfred Hitchcock) che non funge da semplice elemento della scenografia della casa della vittima designata ma svolge una funzione decisiva all’interno del piano criminoso organizzato dal marito della ignara donna, ricordiamo il telefono il cui trillo insistente si sdoppia nel presente e nel passato in una celebre sequenza di C’era una volta in America (Sergio Leone). Memorabile è anche l’accendino dell’omicida perso e poi ritrovato in Delitto per delitto (sempre Hitchcock) e quello del macellaio assassino seriale che la protagonista di Il tagliagole (Claude Chabrol) ritrova sul luogo di una uccisione e si illude che non sia quello che lei ha regalato all’insospettabile uomo.
Per non parlare del coltellaccio da cucina che brandisce la protagonista di La signora ammazzatutti (John Waters) mentre prepara la cena con un ghigno che fa prevedere la imminente serie di omicidi che la donna sta per compiere a dispetto della sua aria di brava madre di famiglia.
Esistono poi oggetti dal valore esoterico che acquistano una funzione significante dalla valenza misteriosa, come la scatolina con la chiave blu in Mulholland Drive (David Lynch) e l’origami di carta che In Blade Runner (Ridley Scott) rivela nel finale la grande umanità del replicante Batty che lo aveva fatto.
Porte e finestre anticipano il senso delle storie, come la porta chiusa della misteriosa stanza dell’Overlock Hotel in Shining (Stanley Kubrick) e come la finestra con le inferriate attraverso cui vola fuori l’anima del protagonista morente in Professione reporter (Michelangelo Antonioni) grazie a un prodigioso carrello che va lentamente dall’interno della stanza all’esterno dell’assolata piazza spagnola.
E poi gli specchi, specchi dall’effetto labirintico come in La signora di Shangai (Orson Welles) o dall’effetto rivelatore della vera natura dei personaggi come in Il servo (Joseph Losey), superfici di vetro che riflettono i volti dei protagonisti e fanno riflettere lo spettatore sulla loro vera natura.
Questo per ricordare che in un film tutto ciò che appare sullo schermo deve avere una precisa funzione e che ogni cosa nel cinema deve essere anche un’altra cosa. Una bicicletta oltre ad essere una semplice bicicletta è la realizzazione del sogno di libertà e di emancipazione femminile di una bambina povera in un villaggio saudita molto tradizionalista, come accade in La bicicletta verde (Haifa Al Mansour), così come un libro letto da un bambino solitario può trasportarlo in un mondo di fantastiche avventure e aiutarlo a crescere, come si vede in La storia infinita (Wolfgang Petersen). Un regista che non sa focalizzare in senso connotante gli oggetti visibili dentro lo spazio filmico e non sa estrarre l’anima poetica dalle cose inquadrate dalla cinepresa è meglio che cambi mestiere o che si dedichi alle inutili fiction televisive.