Nel corso degli anni, un tema complesso come quello della maternità è stato affrontato da artisti e letterati di tutto il mondo un infinito numero di volte. Volendo restare solo nell’ambito della settima arte, ad esempio, non si contano più, ormai, i lungometraggi incentrati su tale questione, alcuni dei quali addirittura capolavori, altri decisamente meno riusciti. In ambito contemporaneo, alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, dove, appunto, numerosi sono i lungometraggi che ruotano attorno al concetto di famiglia, particolarmente degno di nota, ad esempio, è Saint Omer della regista francese Alice Diop, in corsa per il tanto ambito Leone d’Oro.

Saint Omer si ispira, dunque, a fatti realmente accaduti. Nel 2016, infatti, la regista aveva assistito a un processo contro una giovane madre accusata di aver ucciso la figlioletta di pochi mesi abbandonandola su una spiaggia. Cosa avrà mai potuto spingere la donna a tale gesto? Partendo da tale avvenimento, dunque, la Diop ha messo in scena la storia della giovane scrittrice Rama (impersonata da Kayije Kagame), la quale, appunto, si trova a dover assistere ad un processo, al fine di scrivere un libro incentrato sulla figura di una sorta di Medea contemporanea. Tale esperienza, tuttavia, la porterà a riflettere sulla sua stessa vita, sul complicato rapporto con sua madre e con le paure legate alla sua gravidanza.

Le parole si susseguono quasi senza sosta, durante la visione di Saint Omer. La giovane madre accusata di omicidio racconta in tribunale cosa l’abbia spinta a compiere il crimine. La protagonista la osserva silenziosa. La macchina da presa della regista gioca sapientemente di sottrazione puntando su un crudo minimalismo fatto di inquadrature a camera fissa e primi piani dei personaggi, il quale si rivela immediatamente la soluzione vincente al fine di mettere in scena non uno, ma diversi drammi personali. Sporadici flashback dall’approccio maggiormente onirico e contemplativo stanno a “spezzare” una messa in scena compatta e rigorosa e si rivelano, al contempo, necessari a entrare nella vita della protagonista e a conferire fluidità all’intero lungometraggio.

Alice Diop ha indubbiamente optato per un approccio complicato, nella sua apparente semplicità. Eppure, la resa finale è decisamente soddisfacente. Fin dai primi minuti, il volto della protagonista – da cui immediatamente traspare una profonda sofferenza – cattura la nostra attenzione. I fitti botta e risposta durante il processo (interamente tenuto da donne, fatta eccezione per l’avvocato dell’accusa) non risentono dell’uso di un’unica location, della totale assenza di musiche (relegate unicamente ai brevi flashback di Rama) e della mancanza di ogni qualsivoglia virtuosismo registico.
Saint Omer non ha bisogno d’altro per arrivare al pubblico, rivelando innanzitutto una grande padronanza del mezzo cinematografico da parte della giovane cineasta.

La Medea di Pier Paolo Pasolini sta per uccidere i suoi figlioletti. Ma è davvero un uomo ad aver spinto l’accusata a compiere un gesto così estremo ai danni della sua bambina o, come ella stessa sostiene, la stregoneria ha giocato un ruolo decisivo? “Ai posteri l’ardua sentenza”. Toccherà alla gente – e, nel nostro caso specifico, al pubblico – giudicare i fatti. Proprio come sta a intimarci lo sguardo in macchina dell’avvocato difensore al termine della sua arringa.

Saint Omer non vuole esprimere alcuna sentenza, ma unicamente di complessi rapporti madre-figlia fa il suo cavallo di battaglia. Allo spettatore, la libertà di giocare con la storia interiorizzandola come meglio gli si addice.