Il periodo della Seconda Guerra Mondiale, si sa, ci è stato raccontato, al giorno d’oggi, praticamente in tutte le salse. Che fare, dunque, affinché si possa dar vita a un prodotto totalmente innovativo, con tanto di punto di vista tutto personale? A cimentarsi in tale difficile impresa ci ha pensato il cineasta Lou Ye, il quale ha presentato il suo Saturday Fiction in corsa per il Leone d’Oro alla 76° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

Saturday fiction. Venezia76Ci troviamo, dunque, a Shangai, nel dicembre del 1941, in piena guerra. La prima settimana di quel mese, probabilmente ha segnato il destino del mondo intero. La Cina, dunque, sin dall’occupazione giapponese, è teatro di guerra tra gli Alleati e le potenze dell’Asse. La famosa attrice Jean Yu (impersonata da Gong Li) si trova lì con il pretesto di recitare nel film Saturday Fiction, diretto dal suo ex amante. Eppure, il reale ruolo della donna a Shangai non è ben chiaro. Se, infatti, molti pensano che ella si trovi lì per aiutare il suo ex marito, altri ritengono che la stessa cerchi di carpire informazioni segrete per gli Alleati.

Un’impresa, la presente, che – come già da una prima, sommaria lettura della sinossi si può notare – si presenta immediatamente come qualcosa di molto complesso e impegnativo. E se pensiamo al fatto che Lou Ye abbia voluto sin da subito alternare realtà e finzione, scene sul set e momenti presi dalla vita di tutti i giorni della protagonista, la cosa si fa ancor più interessante. Almeno potenzialmente.

Perché, di fatto, il problema principale di un lavoro come Saturday Fiction è proprio la fatica, da parte del suo autore, di gestire, tanti, tantissimi elementi tutti insieme, per una sceneggiatura che risente parecchio di tali intenzioni e che, man mano che ci si avvicina al finale, si fa sempre più contorta, sempre più ingarbugliata, quasi come se ci si fosse dimenticati di seguire un filo logico, a scapito del povero spettatore che fatica sempre più a seguire l’intero discorso.

E se, da un lato, Lou Ye è praticamente rimasto vittima della sua stessa ambizione (che, più che altro, sta quasi a dare l’idea di una scarsa esperienza dietro la macchina da presa, sebbene il cineasta svolga il proprio lavoro da ormai diversi anni), dall’altro tale ambizione si è manifestata anche per quanto riguarda la realizzazione visiva in sé, con un bianco e nero laccatissimo che, all’interno di un contesto in cui sembra esserci tanta forma e pochissima sostanza, risulta pericolosamente gratuito e autoreferenziale. Persino a scapito di una regia tutto sommato complessivamente pulita e interessante.

Peccato, dunque, che un lavoro ricco di potenziali spunti come il presente Saturday Fiction sia fallito così miseramente. L’idea, infatti, di alternare momenti sul set a scene di vita  reale è indubbiamente ricca di appeal. Ma, si sa, mentre con una buona base di partenza e una messa in scena priva di inutili fronzoli si possono realizzare prodotti davvero interessanti, nel momento in cui si vuole strafare, il rischio di mandare all’aria un intero progetto è più che mai elevato.