Per il Giorno della Memoria Gabriele Guidi porta al cinema Terezin, sua opera prima che racconta la vita di artisti e musicisti nel ghetto alle porte di Praga.

Con Terezin, il regista Gabriele Guidi, al suo esordio sul grande schermo, decide di inserirsi nel mare magnum dei film dedicati alla Shoah, scegliendo però di raccontare una pagina precisa di quel triste compendio di brutalità.

Si sa che da Schindler’s List a La Vita è bella, da Il Pianista fino al celeberrimo Diario di Anna Frank, questo tema è stato declinato in ogni maniera possibile, da ogni voce possibile e sempre con il fine di ricordare; si sa anche però, che per quanto nobile possa essere l’intento, il rischio di scivolare nel già visto, già detto e già fatto, con questa tipologia di racconto, è altissimo.
Forse, proprio per questo, Guidi decide di concentrarsi su un luogo specifico e una storia specifica: quella degli artisti, musicisti e scrittori, insomma di tutti quegli intellettuali che avrebbero potuto cambiare la storia, se solo non ne fossero stati spazzati.

Se vuoi privare un popolo della sua libertà e dignità cominci distruggendo la sua cultura

E nel film è lo stesso, qui il regista sembra privare la sua pellicola di tutto: la morte cruda, il lavoro forzato, i volti mangiati da una “vita” ridotta all’osso, immagini che troviamo in molti altri racconti sul tema; ecco qui non c’è nulla di tutto questo, ma solo il ricordo di quella cultura che i nazisti volevano distruggere.

Guidi è come se affidasse il racconto alla grande consapevolezza del pubblico, già ben istruito riguardo questo abominevole avvenimento, lasciando la musica come unica protagonista. Sì perché, in Terezin, il disprezzo, la cattiveria e il cupo disegno dei nazisti, sempre pronti a riempirsi la bocca con il nome del fuhrer, Guidi li usa come fossero un ingombrante e grigio sfondo di una storia di dignità, di musica e di speranza. Tutto rimane indietro, anzi letteralmente dietro la macchina da presa, in fuori campo, sentiamo solo gli spari e vediamo marciare i piedi di chi parte per Auschwitz.

Sullo schermo, quindi, va in scena il grande inganno di Terezin, il cosiddetto “ghetto modello”, quello che doveva essere una bella vetrina allestita per mascherare la verità, il campo di detenzione, a 60 km a nord di Praga, che è stato teatro di una dolorosa storia di uomini, donne e bambini.

Quel ghetto appare infatti come una farsa musicata, un massacro nazista edulcorato da “gentili concessioni”, tra cui il famoso Dipartimento del tempo libero, un luogo in cui fingere che si possa condurre una vita quasi normale. E Guidi a tratti sembra fare lo stesso, spogliando il racconto dalla tragedia, dallo strazio e dalla brutalità per lasciare solo la speranza. Ma a raccontarci tutta la verità ci pensa poi la Storia, le vittime, i ritrovamenti e i numeri che scorrono sullo schermo alla fine del lungometraggio.

Tutto il racconto sembra quindi un grande sfondo per la musica, persino la storia dei due protagonisti, i due amanti, Antonio, clarinettista italiano e Martina, violinista cecoslovacca, che si ritrovano in quel ghetto con tutti gli altri. La loro storia rimane sbiadita, quasi appannata da quel discorso iniziale per cui tutto è in funzione della musica come salvezza.

Lo stesso regista racconta di essere incuriosito dalla storia di Terezin sin dal 2011, quando era alla direzione artistica di “Pierino e il lupo…e molto altro” con Gigi Proietti, dove i musicisti raccontavano che in quel ghetto era accaduto qualcosa di speciale. Una storia che parte dalla musica, quella raccontata da Guidi, e che con essa si chiude, lasciando il resto all’immaginazione di chi già sa. Forse si sarebbe potuto spingere ancor di più l’acceleratore su quell’orchestra di deportati da cui giornalmente sparivano i componenti; forse si poteva alzare di più il volume di quella musica che voleva a tutti i costi aggrapparsi al tempo, sta di fatto che quello che ne risulta è un film diverso, quantomeno per il punto di vista e per le modalità di racconto.

Dal Requiem di Verdi al Brundibar, l’opera per bambini del compositore ceco ebreo Hans Krása composta proprio a Terezin, la musica motiva i deportati ad andare avanti ed è l’arte che gli sopravvivrà e che lascerà il loro segno fino a noi, quel segno che i nazisti volevano cancellare del tutto, perché

l’arte può rivelarsi un straordinario mezzo di conforto per l’animo anche nelle condizioni più impietose che l’essere umano possa concepire

Con Antonia Liskova, Cesare Bocci e Alessio Boni, il Terezin di Guidi, in coproduzione con la Repubblica Ceca e realizzato con il patrocinio delle Comunità Ebraiche italiane, è girato negli stessi luoghi che racconta e porta sullo schermo una storia diversa dalle tante già mostrate, una storia che rimane molto più in superficie per alcuni aspetti, ma che scava dentro ad altri che vale comunque la pena ricordare.