A due anni dalla sua uscita nelle sale europee, il 5 Marzo arriverà nei nostri cinema Sola al mio matrimonio (2018), diretto da Marta Bergman. La regista romena, qui al suo primo lungometraggio di finzione, è sempre stata attratta dalla cultura Rom e dalle dinamiche che si celano al suo interno. I suoi primi progetti di stampo documentaristico sono stati mostrati in festival prestigiosi come il Visions du Réel ed il Leipzig Film Festival.
In modo coerente, questo suo nuovo lavoro traccia una linea di continuità con le storie ritratte nei precedenti documentari, analizzando la stessa sfera sociale. Il film, presentato nella sezione ACID al Festival di Cannes, è stato apprezzato da numerosi concorsi internazionali tra cui il Rome Independent Film Festival, dove ha ricevuto la Menzione Speciale della Giuria e il premio alla protagonista Alina Șerban come migliore attrice.
Sola al mio matrimonio: trama
Pamela (Alina Șerban) è una giovane ragazza madre Rom, insolente e malvista dal resto della sua comunità. Rimasta sola dopo la morte dei genitori, vive oramai assieme a sua nonna e alla piccola Bébé, sua figlia. È alla ricerca di un amore lontano, di riscatto sociale, della scintilla che accenda la speranza in una vita migliore. Così, forte dei suoi ideali, parte alla volta del Belgio sognando un matrimonio che stravolgerebbe la sua vita, donandole la libertà.
Sola al mio matrimonio dipinge senza filtri il degrado dei campi Rom, realtà che spesso noi occidentali tendiamo ad ignorare beatamente, volgendo lo sguardo altrove. Con il dilagare delle destre nazionaliste in Europa, dimensioni sociali come queste vengono viste sempre più di frequente con ostilità. Come però spiega anche Marta Bergman, le speranze dei giovani che vivono in quelle condizioni sono nella maggior parte dei casi nobili e sincere:
I sopralluoghi mi hanno portato in diversi villaggi, in Transilvania e nei dintorni di Bucarest. Lì ho incontrato delle ragazze e dei ragazzi tra i 16 e i 20 anni. Ho domandato alle ragazze quali fossero i loro sogni e desideri più grandi e la maggior parte mi hanno risposto: studiare. Questo perché a 16 anni spesso le ragazze devono smettere di andare a scuola per rimanere a casa a occuparsi dei fratellini o, nelle comunità rom più tradizionali, per sposarsi a 14 anni.
Sola al mio matrimonio: recensione
Marta Bergman, sebbene abbia speso parole lodevoli verso la comunità Rom, non eccelle nel suo omaggio cinematografico. I buoni propositi ci sono, ma fanno molta difficoltà a trasparire dal racconto. Pamela, in teoria paladina della libertà e della fame d’imparare, appare più come una ragazza irresponsabile, egoista ed a tratti sfruttatrice. La “redenzione” che conquista a fine pellicola è solo il frutto di svariate scelte infelici, che non sembrano affatto mosse dal buonsenso.
Tuttavia, prettamente da un punto di vista realista, l’opera è apprezzabile. Ciò che viene proposto sul grande schermo è plausibile, ispirato alle vere vite sventurate poste al centro dei primi lavori della regista romena. La regia sente l’influenza di un forte stile documentaristico, che in fin dei conti è confacente al clima della storia. La fotografia, curata da Jonathan Ricquebourg, sfrutta abilmente l’illuminazione naturale in gran parte delle scene, sempre in virtù di un realismo imperante.
Alla luce di ciò, è la componente fantastica che lascia a desiderare. Immersa in un contesto degradato ma verosimile, la trama soffre del problema opposto, ossia di poca credibilità. Molteplici fattori minano la godibilità del narrato: eventi che appaiono frutto del caso, reazioni umane ingiustificate, scelte narrative discutibili. Pamela stenta ad attrarre a sé l’empatia dello spettatore, che con lo scorrere del film si sente sempre meno coinvolto nella causa della protagonista.
Con Sola al mio matrimonio, Marta Bergman conferma ancora di essere estremamente abile nel ritrarre realtà miserabili con fedeltà artistica non indifferente. La storia del film si inscrive nel contesto contemporaneo, dove l’Occidente simboleggia la “terra promessa”, con tutti i suoi miraggi di una vita da sogno. Pamela spera, si proietta in qualcosa di più grande, in un altrove indefinito che l’aiuti ad evadere da una realtà che rifiuta con coraggio.
Purtroppo, una trama incapace di brillare vanifica le belle premesse alla base di quest’opera. La storia è piatta, mossa spesso e volentieri dal caso, e si fa davvero fatica a rispecchiarsi nelle figure chiave. Non mancano personaggi intriganti (come quello di Marian), ai quali però viene dedicato un minutaggio risicato. Nel complesso è una rappresentazione verosimile di quelle che sono le dinamiche di un campo Rom, con tutte le ostilità del caso. Questo tuttavia non basta a compensare una storia che, tra alti e bassi, fallisce nell’esprimere il suo vero potenziale.