Il Boia”, “la Bestia Bionda” e “il Macellaio di Praga” sono solo alcuni dei nomignoli attribuiti durante la Seconda Guerra Mondiale a Reinhard Heydrich, una delle figure di spicco della Germania nazista. L’appellativo scelto invece da Adolf Hitler per il direttore della Gestapo era “L’uomo dal Cuore di Ferro”. L’omonimo biopic diretto da Cedric Jimenez segue da vicino gli stivali neri dell’ideatore della soluzione finale del problema ebraico, per poi spostarsi sulla genesi dell’attentato che gli costò la vita.

Espulso dalla Marina tedesca, l’ex ufficiale Reinhard Heydrich (Jason Clarke) diventa capo dell’intelligence delle SS. Con l’ascesa al potere del Führer, Heydrich si trasferisce a Praga con la moglie, Lina Von Osten (Rosamund Pike), dopo la nomina di Governatore del Protettorato di Boemia e Moravia. Nel frattempo, due soldati cecoslovacchi, Jan Kubis (Jack O’Connel) e Jozef Gabcik (Jack Reynor), si danno da fare per preparare l’uccisione del gerarca nazista.

Nell’incipit di L’uomo dal Cuore di Ferro convergono in pochi minuti i toni e gli stili preponderanti della pellicola ispirata al romanzo HHhH di Laurent Binet: in un crescendo esaltato dalla partitura musicale, l’inflessione documentaristica delle vicende storiche si fonde lentamente all’intensità dell’azione e del thriller. Il fermo immagine conclusivo spezza poi la tensione e rimanda l’esito finale più in là nel tempo, preannunciando inoltre la frammentazione del racconto in un andirivieni di flashback che destabilizzano l’intero impianto, rivelandosi quindi controproducenti.

Nella prima parte dell’opera la sceneggiatura, curata dallo stesso Jimenez, David Farr e Audrey Diwan, suggerisce l’intenzione di mettere in risalto l’introspezione psicologica dei personaggi, sondando in primis il rapporto tra marito e moglie. “Dietro ogni uomo di successo c’è sempre una grande donna”, recita il detto popolare e L’uomo dal Cuore di Ferro sembra esserne la conferma: Von Osten è una donna senza scrupoli, attratta prima dal Mein Keimpf e poi dall’uomo che lei stessa spingerà ciecamente verso la scalata al potere.

Dopo il secondo fermo immagine lo sguardo di Jimenez passa dalle alte sfere naziste al popolo oppresso e alla resistenza in fermento, incrociando soldati e civili. In un susseguirsi di nascondigli, retate e torture, disposti in contiguità da una regia ordinaria e a tratti scialba, la suspense e il pathos suggeriti dal prologo non vengono mai saldamente sviluppati. Tra stereotipi da camerata e risibili “giochi di coppie” risulta complicato dare spessore alla silenziosa rivolta di chi non ha chinato il capo all’invasore di turno.

Se Clarke riesce a incarnare a dovere l’immagine di un uomo superficiale, fragile e manipolabile, ma spietato all’occorrenza, la Pike, dopo un folgorante inizio, rimane dietro le quinte a causa di una scrittura incapace di dare rilevanza al personaggio lungo gli avvenimenti, mentre le interpretazioni di O’Connell e Reynor non lasciano il segno. Complice forse anche la forzata uniformità linguistica in un contesto multietnico, L’uomo dal cuore di ferro cerca di respirare ad ampi polmoni, ma soffoca inevitabilmente a causa di un’alta concentrazione di artificiosità, opacizzando il ritratto di uno spietato assassino.