15 luglio 1997. Una data che molti italiani, soprattutto se pre-Millennials, difficilmente dimenticano poiché legata alla morte non solo di uno stilista, ma di un simbolo della moda italiana, Gianni Versace. Un simbolo anche di cosa volesse dire rompere le righe di quella moda con la M maiuscola, “liberarla dal conformismo, regalandole la fantasia e la creatività” come disse Franco Zeffirelli alla scomparsa dell’amico. Una morte che forse poteva essere impedita, se le precedenti vittime dell’assassino Andrew Cunanan fossero stati etero e non omosessuali, e quindi la polizia avesse dialogato con la comunità gay prevenendo l’omicidio di Versace.
“Uno dei motivi per cui Cunanan ha potuto attraversare gli USA e scegliere le sue vittime, molte delle quali erano gay, è l’omofobia di quegli anni. È un aspetto interessante da esaminare, in particolare considerando il nostro attuale presidente e il mondo in cui viviamo. Ho pensato che fosse un argomento attuale e sociale”.
– Ryan Murphy al TCA Press Tour
E’ proprio su questa tematica che si basa The Assassination of Gianni Versace, la seconda stagione della serie true crime antologica di Ryan Murphy, American Crime Story, che arriva due anni dopo Il Caso O.J. Simpson con una gestazione complicata. Dal fallimento della giustizia in tribunale di O.J. legato al razzismo passiamo al fallimento delle indagini dell’FBI nel caso di Versace correlato all’omofobia negli anni ’90. Un tema ovviamente caro a Murphy. Basato sul libro della collaboratrice di Vanity Fair Maureen Orth, ora pubblicato per l’occasione in Italia da Tre60 con il titolo Il caso Versace, questo secondo ciclo composto da 9 episodi gioca con flashback e rimandi avanti e indietro nel tempo, partendo proprio dall’epilogo, ovvero il famigerato assassinio sulla villa di Gianni a Miami Beach, per poi andare a ritroso con la storia, al primo incontro fra Andrew e Gianni. Cunanan (un Darren Criss sempre più maturo in quanto a recitazione dopo Glee) aveva incontrato Versace solamente una volta alla San Francisco Opera, dopo la presentazione di un Capriccio di Strauss per cui lo stilista aveva prodotto i costumi, ma era bastata per far nascere nel ragazzo una vera e propria ossessione per lo stilista, che però non voleva avere niente a che fare con lui.
Un set da brivido
La villa di Ocean Drive, un edificio anni ’30 denominato Casa Casuarina e acquistato dallo stilista cinque anni prima della morte, è stato scelto da Murphy come set della serie (dopo la morte è divenuto un hotel di lusso). Le stanze in cui vediamo Edgar Ramirez nei panni di Versace specchiarsi e la piscina con mosaico in oro a 24 carati in cui fa colazione prima dell’omicidio non sono ricostruite da uno scenografo ma sono il vero teatro della tragedia del 1997. Tanto da aver scatenato alcune lamentele da parte della famiglia Versace, proprio pochi giorni prima della messa in onda del primo episodio, a cui però Murphy si è affrettato a rispondere:
“È difficile giudicare qualcosa dopo aver visto una foto scattata dai paparazzi, capendo di cosa si tratta. E quando stai girando uno show come questo non stai realizzando un documentario, ma un docu-drama. Ti devi concedere alcune libertà”.
La morte ti fa bellissimo
Se il ciclo inaugurale si basava sul dimostrare l’iniquità della giustizia americana attraverso il tema del razzismo, questa volta il perno scelto è quello dell’omofobia negli anni ’90, ben espressa dall’interrogatorio ad Antonio D’Amico (Ricky Martin), il compagno di Gianni, nel primo episodio. La regia di Ryan Murphy, proprio come aveva fatto con l’episodio d’apertura de Il caso O.J. Simpson, entra prepotentemente nelle vite dei protagonisti, soprattutto nella sequenza iniziale, per mostrare non solo il loro punto di vista ma l’invasione della privacy da parte dei media in entrambi i tragici avvenimenti. Emblematica in questo senso la sequenza che mostra i fan fuori dalla villa dopo l’omicidio, tra morbosi autografi col sangue rimasto sulle scale e una foto di Versace caricato sull’ambulanza messa all’asta ai giornalisti e presenti a cifre astronomiche.
La regia e la fotografia sono però allo stesso tempo molto diverse dalla prima stagione: questa volta è l’apparenza a farla da padrona, poiché parliamo di uno stilista, di Versace: tutto dev’essere bello in modo esagerato, curato, estetizzato ed estetizzante, così come sono stati i poster promozionali. Perfino la colonna sonora dev’essere trionfale e evocativa, come ad esempio la scelta dell’Adagio in Sol Minore di Albinoni in sottofondo all’omicidio, senza dialoghi.
Donatella sono io
Del cast scelto con molta cura da Murphy, chi spicca è sicuramente Penelope Cruz, trasformatasi letteralmente per il ruolo di Donatella, la sorella e futura leader dell’impero della moda Versace in seguito alla morte del fratello. Non solo trucco e parrucco, colpisce proprio lo studio che evidentemente c’è stato sul personaggio: il suo accento, in lingua originale, è più italiano che ispanico; il tono della voce, la sua postura, le sue movenze, sono chiaramente volti a diventare un tutt’uno con Donatella.
Stranisce forse un po’ non aver scelto attori italiani o italo-americani, soprattutto in virtù delle sequenze di dialogo in cui avrebbero dovuto parlare nella nostra lingua. C’è da dire però che Edgar Ramirez incarna bene la creatività di Gianni Versace, così come Darren Criss la psicosi di Cunanan in quel misto orrorifico di risate e lacrime, e Ricky Martin il misto di amore e rabbia mentre parla con la polizia per cercare di far capire il proprio legame sentimentale con Gianni. Un italiano però nel cast c’è, anche se parla inglese, ovvero Giovanni Cirfiera nei panni di Santo, il maggiore dei fratelli Versace. Completano il quadro gli attori del Murphyverse Max Greenfield (New Girl, American Horror Story) e Finn Wittrock (American Horror Story, The Normal Heart).
American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace sembra quindi un’altra serie rispetto a Il caso O.J. Simpson e punta tutto sull’estetica poiché rappresentativa della storia raccontata. Una serie antologica deve sempre reiventare se stessa di stagione in stagione e Murphy dimostra ancora una volta di saperlo fare come in American Horror Story. L’importante ora sarà calamitare l’attenzione degli spettatori fino all’ultimo episodio.