Dunque, dopo un lungo periodo di eclissi dagli schermi adesso i cow-boy stanno tornando a cavalcare sullo sfondo degli inconfondibili paesaggi del selvaggio West in film che sono la versione aggiornata del più antico genere popolare del cinema. Li rivediamo in azione nelle recenti opere di due registi dalla diversa ispirazione ma entrambi amanti della mitologia della frontiera, la prima è quella dei fratelli Coen La ballata di Buster Scruggs in uscita a novembre, la seconda è quella del francese Jacques Audiard The Sister Brothers premiato a Venezia con il Leone d’argento per la miglior regia.
Gli elementi narrativi del genere vengono lavorati in chiave citazionista nel film dei Coen e in chiave picaresca in quello di Audiard con risultati originali che conferiscono nuova vitalità a una tradizione suscettibile di molteplici riletture secondo nuove prospettive.
Le due opere rappresentano il punto d’arrivo di una evoluzione che nel corso di un secolo ha visto la progressiva maturazione del western dallo schematismo ingenuo delle origini ad una maggiore ricchezza psicologica e stilistica, una ricchezza che è il frutto di un incessante lavoro di contaminazione e di travestimento del suo patrimonio iniziale avviato negli anni ’70 dai registi della Nuova Hollywood impegnati in una revisione ideologica dell’epopea della frontiera rispetto ai modelli del cinema precedente di maestri indiscussi come John Ford e Raoul Walsh.
Tra i titoli fondativi del nuovo western ricordiamo Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah e Piccolo grande uomo di Arthur Penn, il primo dal forte impatto visivo dove la violenza viene coniugata con una profonda vena malinconica tipica di un regista disilluso, il secondo dal taglio etnografico tratta con nuova sensibilità il tema del confronto tra due culture con attendibile documentazione antropologica aprendo la strada a un sotto-filone di successo.
Il successo nel tempo del western è dovuto alla sua capacità di declinare il mito della frontiera in forme che vanno dall’avventura (Tamburi lontani) al dramma (Vento di terre lontane) alla commedia (Butch Cassidy) e al thriller (Mezzogiorno di fuoco) sempre sullo sfondo di ampi spazi naturali utilizzati in funzione psicologica (come accade nelle pellicole di Anthony Mann girate negli anni ’50 con James Stewart come protagonista nevrotico).
Il western resta il genere che più di ogni altro si presta ad una “pedagogia archetipica” dal momento che in esso vediamo in azione, incarnati in personaggi-simbolo, il Bene, il Male, l’Ombra, l’Anima e le altre figure dell’inconscio collettivo impegnate in un confronto di cui è protagonista l’Eroe alla ricerca del suo Sé durante un viaggio di crescita pieno di pericoli.
Gli stessi paesaggi naturali dei western fatti di monti, pianure, gole e fiumi non riflettono altro che il paesaggio della nostra psiche e per questo ci sembrano così familiari anche se non li abbiamo mai visti.
Classico, moderno o post-moderno che sia il cinema western racconta sempre storie universali (a volte raggiungendo la complessità delle tragedie shakespeariane) e questo spiega l’influenza esercitata dai suoi modelli narrativi sulle cinematografie di tutto il mondo (Italia compresa, come dimostrano i western di Sergio Leone) e il suo successo di pubblico presso paesi di culture diverse. La verità è che tutti noi, grandi e piccoli, corriamo dietro a Shane implorandolo di non lasciarci soli vittime del cattivo di turno vestito di nero (proprio come faceva il bambino nel finale di Il cavaliere della valle solitaria).