127 ore: una trappola in tre atti diretta da Danny Boyle
La pellicola del 2010 racconta la storia vera di Aron Ralston, uno sprovveduto ingegnere con la passione per le scalate, che nel 2003 rimase intrappolato in un canyon dello Utah durante un’escursione solitaria. Lui stesso ha narrato la sua disavventura nell’autobiografia Between a Rock and a Hard Place e l’eclettico regista inglese ne ha preso spunto per girare il suo film più intimista.
Protagonista assoluto del film è James Franco che si è guadagnato la sua prima (e meritata) candidatura all’Oscar per la sua performance.
127 ore: la trama del claustrofobico film di Danny Boyle
La storia parte dall’incontro di Aron con due turiste che sono alla ricerca del sentiero giusto per il Dome. Il ragazzo mostra loro un passaggio segreto con tanto di laghetto all’interno di una grotta.
Dopodichè, Aron prosegue in solitaria per il suo itinerario lungo il Blue John Canyon. Non ha avvertito nessuno riguardo alla meta della sua escursione. E’ partito con scarso equipaggiamento e si trova in un punto dove il telefono non ha campo.
Durante la discesa in un anfratto, appoggia la mano su una roccia pericolante. La presa instabile lo fa precipitare per pochi metri, ma il masso va a incastrarsi tra le pareti del canyon.
Il braccio destro di Aron viene schiacciato e resta intrappolato.
Nessuno può sentire le sue grida da laggiù.
Il giovane ingegnere mette in moto i suoi neuroni. Risultano vani i suoi tentativi di liberarsi, dai più intuitivi (come provare a sollevare la roccia con il ginocchio) fino a quelli più ingegnosi (costruisce un paranco con le corde da arrampicata per cercare di sfruttare il suo peso e quindi spostare il masso).
Iniziano così 127 ore di lotta alla sopravvivenza: Aron si filma con la sua telecamera per lasciare un ricordo di sé. Il suo desiderio di uscire vivo dal Canyon, col passare del tempo, si mescola ai ricordi del passato e alle allucinazioni.
Aron ha pochissime provviste, una torcia di pessima qualità, non ha vestiti adatti al freddo notturno e l’acqua scarseggia. Dopo cinque giorni di sofferenze, comprende che solo un gesto estremo può salvarlo: amputarsi il braccio.
127 ore: analisi tecnica e del contenuto
Danny Boyle è capace di alternare grandi successi a film meno riusciti. Sicuramente, la sua pellicola più amata è Trainspotting (1996). Un cult in cui ha dimostrato di essere capace di raccontare storie corali con un linguaggio visivo unico.
E’ un regista che ama sperimentare e spaziare tra generi narrativi, a volte con risultati altissimi , come nell’horror iconico 28 giorni dopo (2002) e nello sci-fi Sunshine (2007), altre volte con risultati sconclusionati come in The beach (2010) o in A Life less Ordinary (1997).
La sua carriera, comunque, dimostra il suo grande talento sia nella scrittura che nella regia.
Stiamo pur sempre parlando di un regista premio Oscar che ha portato a casa ben otto statuette con il suo Slumdog Millionaire (2008).
127 Ore è un film che ha la rara dote di far sentire lo spettatore in trappola insieme al protagonista. Può risultare ostico agli occhi (e agli stomaci) non abituati all’esasperazione del realismo.
Quando Danny Boyle mostra la tortura dell’imprigionamento sottoterra di Aron, lo spettatore vive con ansia insieme a lui quei tragici momenti. Condivide col giovane lo stress fisico e psicologico di una situazione estrema.
Raccontando la realtà, Boyle affronta una sfida ardua del cinema: riuscire a riprodurre la stasi.
Opta per una scelta intelligente: alternare scene frenetiche e adrenaliniche a quelle più statiche del dopo caduta.
Il regista si scatena con split screen, flashback, montaggio da videoclip, utilizza delle canzoni stranianti nella colonna sonora. Boyle gioca col ritmo irregolare, con prospettive impossibili, visioni oniriche, accelerazioni, inserti di found footage. Un mix folle che ha deciso di fotografare in digitale, regalando immagini realistiche e ad alto contrasto.
Danny Boyle sceglie di raccontare la disavventura di Aron come metafora dello sprofondare in se stessi. Dopo la caduta, il ragazzo dovrà fare i conti con una nuova visione del tempo e della vita.
Capirà che può contare solo su se stesso se vuole salvarsi.
L’utilizzo dello split screen è volutamente ripetuto per dare dinamismo al primo atto. Enfatizza i panorami dei Canyons e i giri di Aron in mountain bike. Boyle usa la musica per scandire il raccordo tra una scena e l’altra. Inserisce anche riprese che sembrano fuori contesto (strade trafficate, urla da stadio, runners in marcia) per mettere in contrasto i suoni dell’ambiente cittadino con i momenti di solitudine che vive Aron intrappolato sottoterra.
Il dinamismo dei primi venti minuti si arresta, improvvisamente, quando Aron resta bloccato in fondo al Canyon. La macchina da presa si sottomette alle esigenze dell’escursionista. Il giovane necessita di lucidità e calma per trovare soluzioni pratiche necessarie alla sua sopravvivenza.
Lo spazio intorno a lui si ristringe e il rimo del montaggio rallenta, regalando momenti di grande intimità al protagonista. L’angusto anfratto, però, non limita la creatività di Boyle che si diverte a sperimentale angolazioni e moltiplicare i punti di ripresa.
127 ore è il classico caso in cui la realtà supera la finzione. Boyle mette in scena la discesa negli inferi di un uomo che guarda in faccia la morte, sfiorando la pazzia. Racconta la lotta per la sopravvivenza senza pudore, senza freni e col il linguaggio visivo eclettico a cui ci ha abituato.
James Franco regge sulle sue spalle un film che alterna vari registri, da quello più leggero del primo atto a quello drammatico della seconda parte. Una scena degna di nota è quella in cui Aron intervista se stesso con la sua videocamera amatoriale in stile talk show televisivo, con campi-contro campi con tanto di risate pre-registrate.
Sicuramente, la scena più memorabile del film è quella dell’amputazione.
Impossibile dimenticare i dettagli dell’osso spezzato e dei tendini strappati accompagnati da suoni strazianti…
Roba da far sembrare Eli Roth un dilettante! Il braccio artificiale utilizzato nelle riprese ha fatto nascere una collaborazione tra il curatore degli effetti speciali del film (Tony Gardner) e Jane Kleinman, un insegnante di medicina specializzato in SimuREAL. Si tratta di un materiale altamente realistico migliore del silicone utilizzato nella fabbricazione di oggetti didattici in ambito medico, come parti di corpi umani e feti. Tony Gardner ha ispirato Kleinman e così, una volta tanto, l’arte cinematografica ha dato una mano (o meglio, un braccio) alla scienza.
Nella scena finale di 127 ore appare il vero Aron Ralston. Ha confessato di aver avuto delle perplessità riguardo alle scelte stilistiche di Danny Boyle, ma ha comunque messo a disposizione il proprio archivio di videoregistrazioni e, infine, si è deciso a tornare al Blue John Canyon. Lo ha fatto nonostante la comprensibile difficoltà emotiva di dover rivivere quei momenti, ma ha scelto una data significativa: il settimo anniversario del suo incidente.
Nell’insieme, 127 ore è un film godibile che intrattiene e fa riflettere. Sicuramente non perfetto e decisamente non il migliore di Danny Boyle.
Però è una pellicola coraggiosa, in cui il regista osa e sperimenta. Probabilmente pecca di un autocompiacimento registico e di un pretenzioso egocentrismo nei confronti del protagonista, ma sono imperfezioni giustificabili dato che si sta raccontando, in novanta minuti, la storia di un uomo intrappolato sottoterra.
Boyle racconta, tra follia e sperimentazione, una storia che insegna a non arrendersi. Ma anche a non essere troppo avventati e superbi con la natura selvaggia.
Tanto va lo sprovveduto escursionista al lardo che ci lascia il braccino…