Ci sono voluti 125 pittori, 62.450 dipinti e un decennio intero per gli scrittori-registi Dorota Kobiela e Hugh Welchman per realizzare Loving Vincent.
Trattasi del primo lungometraggio animato ad essere realizzato interamente di dipinti ad olio su tela. Data la quantità di lavoro richiesto per la sua progettazione, sarà molto probabilmente anche l’ultimo.
Potremmo dire che Loving Vincent prende la frase “every frame a painting” molto alla lettera. Un film che s’ispira molto a Waking Life di Richard Linklater, sia come stile che come impostazione, impegnato a scavare nel mistero della morte di Vincent van Gogh (e aprendosi al genio infiammabile che ha definito gli ultimi anni della sua vita) attraverso i ricordi di coloro che lo conoscevano meglio.
La storia, così com’è, s’incentra sulla volontà di un giovane di consegnare una delle ultime lettere di van Gogh al fratello del pittore, nella Parigi dell’estate 1891. Quando l’imbronciato Armand Roulin (Douglas Booth) scopre che anche Theo van Gogh è morto, mette in atto una ricerca per capire meglio cosa ha portato al suicidio dell’artista, lentamente aprendosi all’idea che ci potesse essere stato di più. Dopo aver parlato con un ampio cast di personaggi che comprende il fornitore di pittura di van Gogh, il suo medico, e la figlia del medico (Saoirse Ronan), Armand raggiunge infine una profonda ammirazione postuma per l’immortale post-impressionista.
Faticoso e intasato da flashback in bianco e nero contrastanti, la trama qui è poco più che un pretesto. Una valutazione generosa potrebbe ammettere che la narrazione si risolve in una parabola sul vuoto che la genialità lascia dietro, e sul processo attraverso il quale anche una persona pietosa può essere trasformata in leggenda.
Ovviamente, nessuno guarderà Loving Vincent per la sua trama. Lo stile del film è la sua sostanza, e Kobiela e Welchman sembrano riconoscere quanto opprimente e arretrato sia imporre la logica alla storia di un artista che l’ha sfidata così apertamente, nell’arco della sua. “Non possiamo parlare se non con i nostri dipinti”, recita la citazione di apertura (anche questa accuratamente dipinta a mano), ed il progetto sembra avvicinarsi al suo picco creativo proprio nei momenti di tranquillità, in cui ci sembra di vedere il mondo attraverso gli occhi di van Gogh. La morale che se ne trae è che l’artista, per essere compreso al meglio, va analizzato partendo dalle sue opere, e non dai fatti della sua vita personale.
Purtroppo c’è una sensazione di stridente contrasto durante la visione. L’alterare i dipinti di van Gogh mette in moto un meccanismo per il quale questi vengono privati della loro magia, di quell’alone di mistero che tanto li impreziosisce. Le figure nei quadri sono così espressive proprio perché le sue pennellate estatiche hanno permesso alle loro anime di brillare, ma assegnando loro voci ( tra l’altro banali ed ordinarie) si ottiene uno sgradevole attrito al livello sensoriale.
Molti film, specialmente questo, si basano sul rapporto tra realtà e illusione, ma Loving Vincent mette in antitesi quelle forze l’una contro l’altra. Al netto di tutto ciò, è giusto riconoscere che questo enorme sforzo accorato di tecnica e grafica ha un ché di innegabilmente lodevole. L’arte richiede da sempre un po’ di follia, ed il cinema più che mai. Non tutti i deliri creativi vanno assecondati, così come non ogni film visionario è degno di essere guardato, ma è fondamentale che la gente continui a spingersi oltre i propri limiti. Loving Vincent è importante per questo, perché simboleggia la volontà di cambiare partendo da delle regole prestabilite, ribaltandole a proprio piacimento. Finché ci saranno cineasti disposti a questi sforzi, la settima arte potrà fare sogni tranquilli.