Dopo la visione di un lungometraggio d’animazione come Dilili a Parigi, ciò che resta è quel raro ed estremamente piacevole senso di appagamento che si prova dopo che si è visitato un museo o una mostra.
Non a caso, però, viene fatto tale paragone. Se, infatti, pensiamo al cinema d’animazione francese, ci rendiamo conto di come in tale ambito vi siano numerosi cineasti dallo stile sì diverso l’uno dall’altro, ma ognuno con frequenti e chiarissimi rimandi proprio alla storia dell’arte. Questo è il caso – giusto per fare qualche nome – di Jean-François Laguionie (Le Stagioni di Louise), di Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol (Un Gatto a Parigi, Phantom Boy), così come dell’ottimo Michel Ocelot, il quale, appunto – già noto al grande pubblico per Kiriku e la Strega Karaba (1998), Kiriku e gli Animali selvaggi (2005) e Azur e Asmar (2006) – ha realizzato come ultima sua fatica il presente Dilili a Parigi.

Il lungometraggio – già presentato in anteprima al pubblico italiano in occasione della Festa del Cinema di Roma 2018, all’interno della sezione Alice nella Città – mettendo in scena le avventure della piccola Dilii, una bambina proveniente dalla Nuova Caledonia (dove a causa del colore troppo chiaro della sua pelle non era accettata) e giunta a Parigi (dove, invece, la sua pelle è considerata troppo scura), vuole raccontarci non soltanto una storia d’altri tempi ambientata nella Parigi della Belle Époque, ma anche – e soprattutto – numerose questioni oggi come oggi più che mai attuali.

Recensione Dilili a Parigi

Ed ecco che, con immagini variopinte e rigorosamente bidimensionali e con figure che tanto stanno a ricordare i dipinti di Pablo Picasso, prendono il via, così, le avventure di questa simpatica bimba, la quale fa amicizia quasi per caso con il fattorino Orel (offertosi di farle da guida per le strade di Parigi) e con il quale si troverà coinvolta nelle indagini riguardanti la misteriosa sparizione di alcune bambine.

Attingendo a piene mani dall’immaginario langhiano (chiari sono i riferimenti a Metropolis, per quanto riguarda il mondo sotterraneo, e altresì a M – Il Mostro di Düsseldorf), Ocelot, con questa bizzarra storia a metà strada tra la favola e il giallo (con un gradito pizzico di onirico) mette in scena questioni spinose come la dilagante ondata di razzismo (la stessa Dilili, come già spiegato nell’introduzione, a causa del colore della sua pelle viene considerata “diversa” sia nella sua patria natale che in Francia) e, non per ultima, la violenza sulle donne. Il tutto, appunto, all’interno di una cornice leggera come una piuma (almeno all’apparenza), dove a fare da padrona di casa è, soprattutto, una rigorosissima cura dell’immagine, la quale ha contribuito a fare del presente Dilili a Parigi un prodotto di tutto rispetto.

Recensione Dilili a Parigi

Sarà un piacere, dunque, per giovani e meno giovani, aggirarsi lungo le strade di Parigi e – analogamente a quanto è accaduto a uno spaesato Owen Wilson in Midnight in Paris di Woody Allen (2011) – imbattersi in personaggi e artisti che hanno fatto grande la storia dell’arte e non solo: da Rodin a Henri de Toulouse-Lautrec, dai Fratelli Lumière (loro non potevano di certo mancare!) a Gustave Eiffel, senza dimenticare, infine, Ferdinand von Zeppelin. La resa visiva del presente lavoro, dove alla perfezione viene resa l’atmosfera parigina dell’epoca grazie a fondali curati sin nel minimo dettaglio, farà tutto il resto.

Ed ecco che Dilili a Parigi, altro non fa che confermare – oltre all’indiscusso talento di Michel Ocelot – il fatto che la Francia, insieme alla Russia, può classificarsi di diritto come la nazione europea più interessante e prolifica per quanto riguarda il campo del cinema d’animazione.