Esordio alla regia di Mauro Graiani, 30 anni (di meno) è una commedia che potrebbe convincere ma che inciampa rovinosamente nel cinecocomero.
Al cinema dal 21 agosto.

Se pensavamo di aver chiuso con i cinepanettoni, qui cinecocomeri viste le temperature, 30 anni (di meno) di Graiani è qui per ricordarci che sono loro a non aver chiuso con noi.
Non che abbiano nulla di nuovo da dire, s’intende, ma sono ancora qui, ripuliti quel tanto che basta per dirsi “al passo coi tempi” (qui non ci sono donne scollate da intortare, decisamente troppo belle per gli attempati protagonisti), ma linguaggio e mentalità sono gli stessi…un po’ come succedeva con Zorro e il suo nastrino nero con due fori sugli occhi, così piccolo da farci chiedere: possibile che nessuno si accorga che è Don Diego De la Vega? Insomma, sempre la stessa cosa, ma appena appena mascherata.

La trama del film è semplice e in realtà anche abbastanza simpatica: 3 uomini di sessant’anni, Diego, Maurizio e Marco (rispettivamente Massimo Ghini, Claudio Gregori “Greg” e Antonio Catania), si ritrovano in una clinica e, tra dissapori iniziali e gag da sessantenni, ordinano su internet una fantomatica pillola di produzione cinese che promette prestazioni sessuali mai viste prima. La pasticca non mente, anzi, oltre a migliorare l’aspetto sessuale si scopre riesca a migliorare anche quello fisico: i 3 pazienti in un attimo tornano trentenni.

Diventati giovani, prestanti e meno bisognosi della clinica, inizia la fuga. Ciascuno dei tre ha alle spalle la propria vita, da Maurizio-Greg sposato da anni con Nino Frassica a Marco, vedovo malandato a cui si prospetta un flirt con la cognata, fino a Diego, un Massimo Ghini che sembra arrivato direttamente dai cinepanettoni anni 2000: sboccato, politicamente scorretto e ossessionato dal sesso.

Con questa sgangherata combriccola, la commedia avrebbe benissimo potuto parlare di una storia di seconde chance, di un modo insolito di viversi i trent’anni con la consapevolezza dei sessanta o, semplicemente, dell’opportunità unica di capire cosa significa, davvero, avere trent’anni oggi.

Insomma, i presupposti per una commedia che diverte e fa riflettere ci sono tutti, peccato che dalla “trasformazione” in poi il film di Graiani prenda una piega totalmente differente e decisamente fuori dal tempo, quantomeno fuori da questo tempo. Sì, perché per quanto le controparti giovanili Claudio Colica, Claudio Casisa e Leonardo Ghini (figlio di Massimo) si sforzino nel tentativo di svecchiare la pellicola, anche solo per l’ingresso di volti social sul grande schermo, non riescono nell’intento proprio perché hanno cuciti addosso dei personaggi poco credibili che sono l’idea che hanno i sessantenni dei trentenni di oggi; qualcosa scricchiola e la sceneggiatura proprio non gira, risultando infantile, antica e poco centrata. I neo-trentenni sembrano ragazzini qualunque che si perdono tra fughe in macchina, serate in discoteca, orge, surreali incontri bondage e ragazze facilissime da portare a casa…ma è davvero così avere trent’anni oggi? non mi risulta. Forse sarebbe stato più credibile se gli adulti fossero tornati ad avere vent’anni, ma forse sarebbe stato strano anche così.

In ogni caso, la schiera di personaggi di 30 anni (di meno) continua ad andare e, convinti di poter replicare la composizione della pillola per venderla e arricchirsi (in uno strano slancio alla Smetto quando voglio, ma decisamente meno riuscito) arrivano a Coco, Giulia Elettra Gorietti. Questa, figlia di un chimico, e unicamente per questo chimica anch’essa, si propone di aiutare lo sgangherato trio che, a singhiozzi, passa dai 30 ai 60 anni senza una logica ben precisa. Il personaggio della Gorietti è lo stereotipo per eccellenza: lesbica, drogata, con taglio corto e catene al collo e con una fidanzata che, senza un senso apparente, ci regala un nudo integrale che nei cinecocomeri non guasta mai.

Un colpo al cerchio e uno alla botte

Le coppie omosessuali sono quindi ben due, ma non riescono minimamente a scrollarsi di dosso quella patina macchiettistica che rende le donne disinibite e gli uomini dei grandi gesticolatori con foulard al collo. Anche se contro ogni pronostico, la coppia Greg e Nino Frassica funziona bene, soprattutto grazie a Frassica che riesce a sembrare naturale ovunque lo si piazzi, ma il martellante termine “frocio” (mi piange il cuore a metterlo nero su bianco ma questo è ndr.), messo in bocca a Massimo Ghini, smonta tutta la favola.

Graiani ci prova, non possiamo dire il contrario, ci prova a far dire a Maurizio che quella parola non va bene, che è offensiva e che potrebbe serenamente essere sostituita da gay (o omosessuale se gli anglicismi non convincono) ma la risposta di Diego, vendutoci come un uomo semplice, un gran lavoratore che non ha potuto studiare, un ingorantello ma mica omofobo, è proprio quella che ci si aspetterebbe dall’italiano medio saldato al passato: “prima si diceva così, mica posso cambiare modo di parlare per voi!”; insomma, il film cerca di mettere le mani avanti sull’inclusione ma strizza l’occhio al pubblico che con le offese omofobe si fa una bella risata.

E attenzione, qui non stiamo parlando di politicamente corretto (definito da Ghini in conferenza stampa una dittatura linguistica pari a quella operata del fascismo) no, è solo questione di buongusto, perché siamo d’accordo che si possa ridere di tutto, infondo questa è la commedia, ma dipende da come si decide di fa ridere…(anche perché se poi ci ritroviamo nel film un gay sessantenne che, tornato giovane, quasi si commuove nel vedere la libertà sessuale di oggi, forse è il caso di domandarsi quali erano le persone che non lo facevano sentire libero allora, magari proprio quel personaggio di Ghini che non perdeva tempo a chiamarlo fr***o?). Ripeto, questa non è una crociata in favore del politicamente corretto, anche perché il cinema rispecchia la realtà e per caratterizzare un personaggio cinematografico si può fare di tutto, ma di una cosa o se ne ride o la si normalizza, il piede in due scarpe è sempre un po’ scomodo.

Per finire, 30 anni (di meno) è una commedia che avrebbe potuto essere interessante ma che si è data la mazza sui piedi da sola, un film che aveva un ventaglio di possibilità da esplorare ma ha deciso di restare sul nazional-popolare, sulla risata semplice e quasi infantile, mettendo in scena le generazioni più giovani ma senza indagarne i principi e i disagi, basandosi su un’idea dei trentenni di oggi un po’ fuori dal mondo, è un film che si getta a pesce nelle critiche, perché tanto ormai la risposta a qualsiasi obiezione è preconfezionata: “ma non si può dire più niente!”. No, si può dire tutto, ma qualcosa da dire bisogna averla.