Nella coerente e omogenea opera di Alfred Hitchcock, la cui arte è stata dissezionata meticolosamente dai critici di tutto il mondo fin dalla prima rivendicazione a opera dei Giovani Turchi dei Cahiers du Cinéma, soggiace a volte parzialmente dimenticato il piccolo compendio di psicanalisi che il regista ha realizzato con il titolo di Io ti salverò (Spellbound in originale).

La pellicola non tanto è ricordata per la maestria (indubitabile) del suo cineasta, quanto piuttosto per il lavoro svolto dall’artista Salvador Dalí nel mettere in scena le visioni surreali della sua pittura, contribuendo così a realizzare una delle più celebri scene oniriche della storia.

Eros su cui incombe Thanatos, più melodramma che thriller però, Io ti salverò è ambientato all’interno di una clinica psichiatrica nella quale il direttore Murchison, in pensione anticipata a causa di un esaurimento nervoso, passa il testimone al giovane Anthony Edwardes (un magnetico e tormentato Gregory Pack).

Tuttavia, i ripetuti casi di amnesia di quest’ultimo cominceranno a rivelare frammenti di sconcertanti ombre del passato che saranno ricomposti solo dall’amore della collega Costanza Petersen (Ingrid Bergman, al primo di tre film con Hitch, affetta dalla sindrome della crocerossina, ammantata dell’aura eburnea che solo il cinema classico hollywoodiano sapeva così magicamente realizzare).

Sotto una regia per lo più già gravida della maestria del grande auteur (la macchina da presa, mobile occhio scrutatore che indaga attivamente suggerendo il senso, depistando o svelando segreti), Io ti salverò, come sottolineava già Truffaut, non è il delirante film che ci si aspetterebbe dalla collaborazione con il genio surrealista per eccellenza (o il più mercenario) Salvador Dalí; piuttosto il metodico sciorinamento del tema del doppio, della sindrome dell’impostore, del perturbante che prorompe quando il protagonista vede linee parallele su fondo bianco e del sogno come meraviglioso onirico disvelatore di una realtà superiore (ovvero quelle nevrosi che compongono la soluzione del caso) sembra trasformare la pellicola di Hitchcock in un dogmatico manuale divulgativo sulle teorie freudiane.

Il sogno daliliano raccontato dal protagonista (la scena certamente più suggestivamente immaginifica e, dunque, giustamente celebrata di Io ti salverò), materializzando attraverso le parole quegli spazi metafisici e quelle immagini oniriche in cui la casualità (pregna di significato) prende il posto della causalità, teorizza il cinema stesso come linguaggio privilegiato per la rappresentazione tanto del ricordo, quanto del sogno (qui il ricordo del sogno) come faranno d’altra parte anche molti teorici del film di matrice psicoanalitica.

Ancor più interessante è, però, constatare come la dicotomia tra la normalità (pur godibile) con cui è mostrata la «caccia all’uomo presentata in un involucro di pseudo-psicanalisi» (secondo la descrizione dello stesso regista) e la surrealtà della sequenza onirica abbia definito i canoni (voce fuori campo e dissolvenza incrociata ad aprire al magmatico inconscio, ad esempio) per la rappresentazione del sogno nel cinema: naturalizzando e narrativizzando alcune suggestioni delle avanguardistiche esperienze della stagione dadaista e poi surrealista, quella di Man Ray, delle prime pellicole di Buñuel (con ancora lo zampino di Dalí) e di Maya Deren, la scena di Io ti salverò di Alfred Hitchcock ha definitivamente incorporato le potenzialità visive del sogno anche nel cinema hollywoodiano.