Come si sente la mancanza del regista Kim Ki-duk, alla Mostra del Cinema di Venezia! Improvvisamente scomparso nel dicembre 2020, il cineasta sudcoreano era decisamente di casa al Lido, dove, tra le altre cose, nel 2012 è stato insignito del Leone d’Oro per il suo lungometraggio Pietà.

Non è un caso, dunque, che proprio alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia sia stato presentato, fuori concorso, Call of God, suo lungometraggio postumo, ultimato dai suoi più stretti collaboratori in seguito alla sua morte. Venezia glielo doveva!

In quella che è considerata la sua opera-testamento, dunque, abbiamo un uomo e una donna (non ci è mai dato da conoscere il loro nome). La donna dorme nel letto di casa sua. Al suono della sveglia si alza, si lava ed esce di casa. L’uomo, fino a quel momento a lei sconosciuto, le chiede come raggiungere il caffè “Il Sogno”.

Da quel momento in avanti i due inizieranno un flirt che li vedrà, in breve tempo, sempre più vicini. Poi, improvvisamente, lo squillo di un telefono. La ragazza è nuovamente nella sua camera da letto. Era solo un sogno quello che ha appena vissuto? La voce al telefono le chiede di riaddormentarsi: quello che avrebbe sognato si sarebbe verificato il giorno successivo. In che modo si potrebbe cambiare il corso del destino?

CIò che immediatamente colpisce, in apertura di Call of God, è una didascalia che riporta una frase di Kim Ki-duk:

“Più ci si avvicina alla morte, più gli esseri umani sentono la mancanza e ricordano la loro giovinezza. Mi manca la giovinezza dei miei vent’anni. Tuttavia, poiché ho commesso molti errori in gioventù, se potessi tornare indietro nel tempo, vorrei davvero agire bene. Ma la vita non può mai tornare indietro”.

In Call of God il destino viene mostrato in sogno alla protagonista. Sta a lei, una volta sveglia, decidere come cambiarlo. La sua nuova relazione amorosa è un crescendo di violenza e gelosia, nella loro insicurezza e nel loro disperato bisogno d’amore i personaggi tirano fuori il peggio di sé, provocando, spesso, gravi conseguenze anche per chi sta loro vicino.

Un raffinato bianco e nero ci trasporta immediatamente in una dimensione irreale. Quando si dorme, si dà il via libera all’inconscio, i freni inibitori vengono meno, la vera essenza di ognuno di noi si manifesta in tutta la sua potenza. La città in cui vivono i due protagonisti ha, a una prima impressione, quasi le sembianze di un luogo senza tempo, in cui ampi parchi, stradine curate e tanto, tanto verde si contrappongono, con la loro quasi irreale tranquillità, a ciò che accade nell’appartamento dei due.

In Call of God riconosciamo immediatamente la mano di Kim Ki-duk, la sua leggendaria capacità di raccontare l’animo umano e di riflettere sul destino, sulla vita e sulla morte attraverso storie tanto irreali quanto incredibilmente vive e pulsanti. Nonostante il regista sia morto solo poco tempo dopo l’inizio delle riprese. Vita e morte. Sogno e realtà. Passato e presente. Amore e odio. Bianco e nero e colore.

Call of God è un’opera spettrale, fortemente evocativa ed estremamente personale. Probabilmente, il regista l’avrebbe ultimata proprio in questo modo. Ma questo, purtroppo, non potremo mai saperlo.