“La supposizione è la madre di tutte le cazzate!”. L’affermazione dell’attore Everett McGill in Trappola sulle Montagne Rocciose sarebbe la risposta perfetta al poliziotto Krauss (Will Poulter), reo di aver ucciso senza motivo un afroamericano in Detroit, ultima fatica di Kathryn Bigelow. L’agente avrebbe solo supposto che il cittadino di colore fosse armato, solo supposto che avesse ucciso qualcun altro prima di fuggire e, infine, solo supposto che fosse l’unica cosa da fare, perché nel cuore del Michigan gli afroamericani sono in rivolta. E la rivoluzione, si sa, non è un pranzo di gala.

Detroit RivoltaDai campi di battaglia del Medio Oriente e dall’ombra dell’undici settembre, la regista di Zero Dark Thirty si muove nel tempo e nello spazio per raggiungere uno dei tanti ground zero del popolo nero, ovvero la sanguinosa sommossa di Detroit del 1967, che in soli quattro giorni provoca quarantatré morti e quasi milleduecento feriti. Tutto ha inizio da una retata della polizia in un bar notturno ed è in questo frangente che la Bigelow sceglie la formula del docu-drama. Grazie a una breve introduzione animata sul sofferto passato afroamericano e ai frammenti televisivi di repertorio, risalenti all’epoca degli scontri, la regista propone una dettagliata ricostruzione dei fatti che acquista progressivamente veridicità e potenza, ponendo le basi per una crime story ad alta tensione.

Detroit John BoyegaLo sceneggiatore Mark Boal è abile nel tessere lo schema di una guerra ingiustificata, generata da un governo corrotto fino al midollo e che non esita a inviare l’esercito per eliminare ogni possibile minaccia. A farne le spese sono sempre i più deboli, tra cui Melvin Dismukes (John Boyega), una security guard che lavora per privati e che Boal tratta quasi come lo zio Tom della situazione, oscillando tra una furbesca riverenza verso i bianchi e l’ammonimento incondizionato nei confronti dei propri “fratelli”. Il vero protagonista di Detroit non è però l’interprete di Finn in Star Wars: il Risveglio della Forza, bensì un’intera vicenda che ne costituisce, letteralmente, il cuore pulsante. Una pagina nera della storia (afro)americana narrata attraverso un montaggio magistrale e impercettibile, con cui lo sguardo della regista si sposta agilmente lungo le strade di una città semi-distrutta, ma soprattutto tra le stanze dell’Algiers Motel, dove persero la vita dei giovani innocenti.

Lasciando scorrere sangue, lacrime e sudore, la Bigelow denuncia il razzismo spietato, l’odio incontrastato e l’abuso di potere dei bianchi d’America sulla comunità di colore, riservandosi lo spazio di criticare il ciclico disprezzo verso i veterani di guerra e il maschilismo estremo nei confronti delle donne. Il ritmo concitato risente di una grave battuta d’arresto quando il lungometraggio, sul finale, assume i toni del legal movie, senza però quel pathos e quello slancio emotivo che avrebbero consolidato lo stile meticoloso della regista di Point Break. Ma il vero punto di rottura col passato tarda ad arrivare, perché basta digitare police brutality su youtube per scoprire, con dispiacere, che il lieto fine non esiste.