Ci sono opere come “Enter the void” di Gaspar Noè, che vengono alla luce per non rappresentare una semplice presenza all’interno del processo evolutivo cinematografico, ma che cercano di aprirsi una via propria in grado di costituire una nicchia, un sottoinsieme, capace di influenzare nel tempo l’impostazione di progetti futuri. Gaspar Noè non riesce in questo piano così ambizioso, ma al tempo stesso il suo deragliamento nei confronti dell’impostazione narrativa cinematografica ne fa un’ esperienza meritevole di un’ osservazione diversa da come ci si predisporrebbe alla visione di un “normale” film. Se il plot è di solito la spina dorsale di un film dove il resoconto dei fatti e gli intrecci creati ad arte e privi di casualità ottengono alla fine una storia più o meno avvincente, che congiunto alla pari con uno schema visivo, danno l’unità, “Enter the void” invece ha una trama che può esaurirsi in un semplice periodo : “Oscar, spacciatore che abita a Tokio con sua sorella Linda, spogliarellista, muore dopo un blitz della polizia in un locale e la sua anima vola via…o no”. Ma tutto questo non è importante poiché al centro dello schermo non c’è il personaggio, ma piuttosto la sua idea. Noè va alla ricerca di un istante visivo puro, tanto forte da riuscire a tenere lo spettatore al di sopra della semplice successione di eventi e costringere l’occhio a disinteressarsi dai suoi collegamenti cerebrali, quasi a chiudersi, perché quello che il regista franco-argentino mostra sembra la trasposizione di ciò che vediamo quando si serrano le palpebre. La sensazione visiva è totalmente investita sin dall’inizio da colori, forme, particolari e prospettive che si annodano e si compenetrano, impossessandosi dell’animo dello spettatore. Lo schema visivo, dividendosi tra la soggettiva del protagonista per il presente, soggettive indirette per il passato e fluttuanti dolly in plongèe per l’ultimo viaggio tra i palazzi di una Tokio elettrica, disorienta e innalza lo spettatore tra un’immagine che fa da mediazione tra due dimensioni e uno sguardo diretto che si appropria degli occhi del singolo. Se la trama si esaurisce presto, altro si intreccia con l’ultimo viaggio dell’anima di Oscar: teorie e sostanze che più di una semplice comparsata ne illuminano e ne creano ombra al senso stesso del film. Il libro Tibetano dei morti e la sua citazione sulla morte come trasmigrazione dell’anima, che “pesata” dell’intera esistenza è pronta all’ultimo viaggio verso l’eternità o un nuovo presente, va intrecciandosi con il viaggio cerebrale stimolato da un allucinogeno, la dimetiltriptamina. Entrambi sembrano ricoprire la stessa funzione di chiave verso l’altero, liberando un mondo incorporeo, quasi molle nella costituzione, ultimo arrivo dei sogni e delle paure. Noè si appropria della metempsicosi e del DMT per intavolare forse il momento più importante: l’ultimo respiro, entrando nel flebile riflesso di luce nell’occhio di Oscar, dando vita alla sua idea di vuoto. Il suo è un viaggio etereo, al di sopra delle esistenze da lui toccate in vita, tra il silenzio dei respiri presenti ed avvolto nella spirale dei venti del passato. I suoi turbamenti, i dolori, i sogni e le gioie sono rappresentati attraverso un’ordinata idea di scomposizione visiva. Il vuoto così come appare è un viaggio che rappresenta vita di corpo e spirito che, insieme e separati, ricercano una vicinanza con gli altri esseri, vagando in modo diverso e arrivando alla fine all’ammissione che il viaggio è individuale, che riporta il tutto a ad una solitudine eterna. L’unico difetto che può emergere da questo così stimolante progetto psichedelico è il non accorgersi che il tempo può risultare diverso per chi subisce un trip e per chi invece ne è all’oscuro; Noè, impegnato nel portare alla luce il suo lavoro più agognato forse non riesce proprio ad accorgersi del suo sogno e non fa nulla per cercare di ritornare a guardare in maniera nitida, neanche stropicciarsi gli occhi. La sua ambizione forse sta proprio nel non svegliarsi e nel non risvegliare lo spettatore. Con la sua perseverante ricerca di un’estetica visiva splendente, l‘autore arriva a citare Kubrick e ci offre una visione difficile che porta quasi allo stremo come un bad trip che non vuole finire, seppure nel mentre l’occhio ne è estasiato. Se lo spirare dà vita all’ultimo viaggio, con un’iniezione fisiologica di dmt nel cervello, “Enter the void” ne simula in modo angosciante la sua possibile prospettiva.
Leonardo Carnicelli