Con Finale a sorpresa – Official Competition, al cinema dal 21 aprile, Mariano Cohn e Gastón Duprat tengono aperto il sipario sul dietro le quinte del grande cinema, costruendo una commedia arguta e dissacrante, come non se ne vedevano da tempo.

Con tre soli personaggi in gioco, Penélope Cruz, Antonio Banderas e Oscar Martínez, Finale a sorpresa presenta il cinema come un complicatissimo gioco a carte scoperte, un continuo percorso ad ostacoli dove gli ostacoli sono proprio gli attori.

Presentato alla 78esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film ruota intorno a divi dall’ego incontenibile, personaggi meticolosamente caratterizzati e costruiti con tasselli intrisi di narcisismo, egocentrismo e visioni differenti di quell’arte cinematografica, il cui centro sono sempre loro. Che sia teatro o cinema hollywoodiano, che siano pellicole cosiddette impegnate o prodotti mainstream, ogni personaggio crede d’essere il migliore nel suo campo e, si sa, far convivere immense personalità in una stessa inquadratura non è mai un’impresa facile, vera o finta che sia.

Un film per essere ricordati

La storia prende il via in maniera inconsueta, il che darà il ritmo a tutta la pellicola che si muove su continue pazzie e risate consapevoli e mai banali. Un milionario, all’alba dei suoi 80 anni, tira le somme della sua vita, ponendosi una domanda ingenua ma immensa: “Come mi vede la gente?” Da subito, quindi, entra in scena quel senso del guardare e dell’essere guardati, tipico del cinema, quell’estremo bisogno di compiacere, ma soprattutto di essere ricordati per qualcosa, ma non per una cosa qualunque, per qualcosa di grande.

Che fare perciò per essere ricordarti? un ponte o un film? il vecchio milionario don Humberto saggiamente sceglie di finanziare una grande produzione cinematografica, che deve rigorosamente arrivare da un romanzo premiato, che lui ovviamente non ha letto, diretta da una grande regista di cui tutti parlano e recitata da attori di cui tutti parleranno. La fama quindi è l’ingrediente essenziale, a dispetto di tutto il resto, persino della storia, basta che tutto sia grande.

Con queste premesse, iniziano le riprese di quel film strategicamente programmato come lascito, tutto girato in enormi stanzoni vetrati dove l’ego dei protagonisti arriva a coprire ogni metro quadro di quei larghi spazi. Lola Cuevas, regista visionaria che sembra essere quasi posseduta dalla sua potente visione artistica, dirige Félix Rivero e Iván Torres, due attori diversi, per ruoli, fama e pubblico.

Se il film (nel film) che i personaggi si accingono a recitare è basato su una storia di competizione tra fratelli, la rivalità diventa il fulcro anche dello stesso Finale a sorpresa, una competizione totalizzante. Il film è infatti un continuo scontro su cosa sia il cinema, su come si faccia, come si senta e come si viva, un infinito tira e molla tra due artisti, tenuti come marionette dai fili di quell’assurda regista che sembra consapevole della sua pacata pazzia. Tutto è vero e tutto è finto, tutto è cinema e tutto è vita.

Finale a sorpresa: Divi contro divi

Saper ridere, e far ridere, di un meccanismo ben oliato come quello del mondo del cinema sembra come percorrere una strada accidentata dove scivolare è semplicissimo, ma per Cohn e Duprat, con Finale a sorpresa, sembra filare tutto liscio, dall’inizio alla fine.

Il meta-racconto non si perde mai in quei rivoli di narcisismo o in quelle overture di egocentrismo macchiettistico, nessuna retorica o metafora stridente anzi, tutto è fluido, tutto sembra vero, forse proprio perché lo è, infondo non c’è niente di più assurdo della realtà. Lo stesso Banderas confessa di aver preso spunto da nomi noti del cinema per creare e giocare con il suo Felix, o anche solo di aver esasperato qualche proprio fastidioso atteggiamento.

I due attori nel film vengono legati, provocati e messi in pericolo, in un turbine di recitazione nella recitazione che diventa iper-fisica e sonora, con corpi e suoni che si alternano sullo schermo in un gioco divertente ma che mal cela, volutamente, riflessioni su quel mondo finto e patinato. Tutti sono grandi e tutti vogliono essere più grandi, in questa corsa al premio, all’applauso, al riconoscimento e alla venerazione del grande pubblico o di quella nicchia altolocata che è il pubblico “colto”.

Due mondi che si scontrano e due modi di vivere l’arte che si accavallano, perché Felix e Ivan sono attori ingombranti e nessune dei due ha intenzione di fare un passo indietro. Due divi, due uomini grandi e capricciosi, diretti da una donna che sembra tenerli in pugno ma che, a sua volta, è tenuta in pugno da quel senso di onnipotenza che contraddistingue tutti e tre.

L’arte sofisticata, autoreferenziale e volutamente appartata da una parte e il cinema del popolo, quello delle statuette e degli autografi dall’altra, nessuno sembra uscirne indenne da questa Official Competition, neanche la geniale e visionaria figura del regista. Tutto è fino alla fine, fino a schiacciarsi e sorpassarsi con mezzucci e falsità, perché la corsa al podio è senza esclusione di colpi, pur bassi che siano.

Quella di Cohn e Duprat è una critica tout-court affilata ma mai pesante, anzi estremamente divertente del cinema e di quelle intricate dinamiche che raramente oltrepassano lo schermo e si mostrano, nude e crude, al grande pubblico.

Con la nuova pellicola Made in Spain si ride dal primo all’ultimo minuto, di quel clima assurdo, di quel comportamento bambinesco e capriccioso instillato in adulti strapagati che si atteggiano a geni sottovalutati. Una prova attoriale strabiliante per Cruz, Banderas e Martìnez, che riempiono completamento lo schermo prendendosi sempre troppo sul serio fino a rendere la pellicola impossibile da vedere senza provare un sincero divertimento.

Il fiore all’occhiello del film dei due registi argentini è però, senza dubbio, la fotografia di Arnau Valls Colomer, che riesce a rendere i luoghi presenti al pari dei personaggi, corredando gli sfondi di vuoti impalpabili o di oggetti in primissimo piano, come quel pagliaccio triste all’inizio del film che racchiude un po’ tutto il senso de “la triste pagliacciata”, mascherata da commedia, che seguirà.

Una delle commedie meglio riuscite degli ultimi tempi, un’indagine mai troppo pretenziosa del mondo moderno e degli umanissimi miti piazzati, più o meno giustamente, in vetta; con un finale, ovviamente, a sorpresa.