Lascia interdetti La foresta dei sogni, il nuovo film del regista Gus Van Sant con protagonista il premio Oscar Matthew McConaughey. Per chi conosce e ha amato e apprezzato le opere del regista statunitense, da Drugstore Cowboy a Elephant fino ai più recenti Milk e Restless, è difficile infatti credere che questo film sia opera dello stesso autore.
Difficile è anche raccontare la trama, non perché particolarmente complessa e articolata (anzi se vogliamo fin troppo semplice e spiegata) ma perché costituita da tre linee narrative che si intersecano, trasformandosi in tre film diversi che stanno insieme a stento. La storia principale è quella del professore di matematica Arthur Brennan, che decide di andare in Giappone per uccidersi nella foresta di Aokigahara, luogo misterioso e inquietante, meta degli aspiranti suicidi di tutto il mondo. L’incontro con un altro sventurato (Ken Watanabe), e la decisione di aiutarlo a trovare la via d’uscita da questo “mare di alberi” (traduzione letterale, e sicuramente più calzante, del titolo originale del film) porteranno il protagonista a ripensare il suo proposito e a riflettere sul valore della vita e su quello dell’amore, capace di trascendere anche la morte. Su questo nucleo centrale, che si trasforma in una lotta uomo/natura alla maniera di Un tranquillo weekend di paura ma in chiave più intimista, si inseriscono i flashback che raccontano la vita familiare del protagonista e la sua difficile relazione con la moglie (Naomi Watts). Nell’ultima parte il film vira invece verso una lettura più mistica e metafisica, aggiungendo un’ulteriore linea narrativa a una storia che sembrava già conclusa.
A parte le semplificazioni al limite dello stereotipo (occidente scientifico vs oriente cultura misteriosa e incomprensibile) e alcuni buchi di trama profondi come le grotte della foresta, il grande difetto del film sta nell’incapacità di definire una strada da seguire, di scegliere quale storia raccontare e di analizzarla fino in fondo. Il dramma intimista, lo scontro con la natura, la parabola trascendentale, diventano così mero stereotipo, ognuno percorso nel suo perimetro, ma senza avere la forza di entrare e studiarlo all’interno. La sensazione che si ricava è tra le più strane: sappiamo precisamente perché i personaggi compiono le loro azioni, ma non riusciamo ad essere parteci e a comprendere il loro coinvolgimento emotivo. La scelta del protagonista, ad esempio, pur spiegata con insistenza dai flashback e ribadita da un lungo, e inutile, “spiegone” a metà film, sembra dettata soprattutto da una sequela di disgrazie che avrebbero fiaccato anche il piccolo Remì del romanzo di Malot, più che da una chiara motivazione emozionale. A soffrire di questa superficialità sono tutti personaggi, non solo quello di McConaughey e della Watts, ma anche e sopratutto quello del bravo Watanabe, simbolo di una spiritualità orientale da cartolina.
L’impressione è che Van Sant, come il suo protagonista, si sia inoltrato in una foresta che non gli appartiene e che non capisce fino in fondo, perdendosi nei meandri di una sceneggiatura, scritta da Chris Sparling, piena di semplificazioni e di luoghi comuni. In chiusura, dovendo concludere tutte le linee narrative, il film è costretto ad accumulare finali (se ne contano almeno quattro), dimostrazione ultima di una costruzione incerta e ridondante che fa di La foresta dei sogni un film che dice troppo, e insieme troppo poco, che spiega molto ma non va mai davvero nel profondo.
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