Il film vincitore dell’Oscar 2017 Moonlight conferma l’importanza che nel cinema ha il gioco degli sguardi. Nella storia della costruzione dell’identità del giovane protagonista, doppiamente svantaggiato perché nero e gay, i momenti di maggiore espressività non sono quelli affidati ai dialoghi ma quelli risolti con gli sguardi tra il piccolo e poi cresciuto Chiron e sua madre e l’amico e il mentore che lo aiuta nel difficile percorso identitario.
In questa staffetta di sguardi il cinema rivela di possedere una facoltà di visualizzare i sentimenti che nessuna altra arte possiede, una facoltà che gli deriva dalla tecnica esclusiva del primo piano. Nel film i volti dicono più delle parole e questo ne accresce il valore artistico tanto più se si pensa che la vicenda è tratta da un’opera teatrale. Lo sguardo di Chiron si allinea a una lunga serie di sguardi rivelatori che la storia del cinema ha mostrato fin dalle origini con la valorizzazione della microfisionimia capace di esplorare il paesaggio del volto umano. Basti ricordare lo sguardo prossimo alle lacrime di James Stewart in La donna che visse due volte quando dopo una spasmodica attesa vede uscire dalla porta del bagno la sua Madeleine resuscitata che gli viene incontro uscendo da alone di nebbia verdina, oppure lo sguardo del piccolo protagonista di I quattrocento colpi quando al temine della sua fuga in riva al mare guarda dritto negli occhi lo spettatore in un frame stop che ha la funzione di una interpellazione sul suo destino rivolta a tutti, oppure lo sguardo furente di Medea quando nel finale di Medea di Pasolini maledice per l’eternità il marito fedifrago Giasone e con lui tutti noi suoi discendenti.
E poi come dimenticare gli sguardi tra sofferenti ed estatici della pulzella d’Orleans nella Giovanna d’Arco di Dreyer, oppure nell’ambito del western classico l’espressione di Gary Cooper in quel Dove la terra scotta di Antony Mann che compendia da sola la scissione del personaggio tra il suo nuovo Io positivo e quello vecchio criminale.
In questa dinamica degli sguardi tra i personaggi e tra essi e lo spettatore è risolto il carattere introspettivo del film di Barry Jenkins, un piccolo film poco hollywoodiano meritevole di premio non soltanto per il suo impegno etico ma soprattutto per il suo valore poetico, un valore espresso con il ricorso a quei fondamenti dello “specifico filmico” troppo spesso dimenticati nell’attuale produzione cinematografica ricca forse di stupefacenti visioni ma povera di segrete rivelazioni .