Una cena troppo pesante e di troppe portate, dove alla fine ci si alza con una bella indigestione e non poca confusione: è questo l’effetto di The Dinner, il film che il regista Oren Moverman ha tratto dal romanzo di Herman Koch, già portato due volte sul grande schermo, in Olanda per la regia di Menno Meyjes e in Italia da Ivano De Matteo con il titolo I nostri ragazzi, con Lo Cascio-Mezzogiorno e Gassman-Bobulova nei ruoli principali.
Intorno al tavolo di un rinomato ristorante di lusso si trovano riunite due coppie, un professore di storia un po’ sopra le righe (Steve Coogan) e suo fratello maggiore (Richard Gere), politico in carriera ad un passo dalla nomina a governatore, accompagnati dalle rispettive mogli (Laura Linney e Rebecca Hall). Dall’aperitivo al digestivo, l’arrivo dei piatti ritma il tempo di questo confronto che, iniziato come un’innocua cena di famiglia, diviene l’occasione per far riaffiorare tutti i trascorsi dei commensali, compreso il vero, drammatico, motivo della loro riunione.
Se Di Matteo aveva rinunciato alla formula chiusa della cena a quattro, al contrario Moverman, decidere di utilizzare proprio le varie portate come atti di un dramma che vada a scavare nei rapporti nascosti e nei grandi segreti di una famiglia apparentemente normale ma assolutamente disfunzionale. Una bella idea, che però il regista non riesce a sfruttare e a cui sembra non credere fino in fondo, appesantita com’è da continui, lunghissimi, non necessari flash back che spezzano la tensione del confronto. Ad aumentare il senso di fastidio e di pienezza contribuiscono le martellanti scelte musicali di Hal Willner e la voce fuori campo del personaggio di Coogan. Si parla tanto, troppo, e alla fine si rimane come storditi da tutta questa valanga di parole e informazioni che però aggiungono poco o nulla alla psicologia dei personaggi, che finiscono per risultare eccessivi, poco sfaccettati, dai comportamenti spesso immotivati.
Bravo il quartetto dei protagonisti (sprecata invece Chloë Sevigny nel ruolo della ex moglie di Gere) che si impegna al massimo per cercare di dare credibilità ai propri personaggi tagliati con l’accetta e ritmo ad uno scontro a cui manca però qualsiasi tensione. Senza voler invocare capolavori del confronto a porte chiuse come il Carnage di Polanski, la storia di Koch aveva tutto il potenziale per potersi trasformare anche sullo schermo in un’occasione di riflessione sulla violenza nascosta dietro le convenzioni borghesi, giustificata e trasmessa dai genitori ai figli. Tutta la carica corrosiva del romanzo, che invece De Matteo era stato in grado di mantenere nel suo molto più libero adattamento, si perde qui quasi completamente, stemperata da una sceneggiatura confusa, da una regia pasticciata e da una rappresentazione dei personaggi troppo manichea per riuscire a generare qualsiasi tipo di comprensione o repulsione, di apprezzamento o di condanna nei loro confronti.