Sebastian Melmoth è il nome adottato da Oscar Wilde dopo due anni passati nelle prigioni inglesi. Dichiarato colpevole di sodomia nel 1895 e costretto ai lavori forzati, lo scrittore esce dal carcere di Reading con un macigno sulle spalle e le catene ancora ai piedi. Il periodo più doloroso per l’autore de Il ritratto di Dorian Gray è il punto di partenza di The Happy Prince, il biopic scritto, diretto e interpretato da Rupert Everett, qui per la prima volta in cabina di regia.
Wilde (Rupert Everett) sta trascorrendo gli ultimi giorni di vita in una modesta pensione di Parigi. Il fallimentare tentativo di riconciliarsi con la moglie Constance (Emily Watson) lo spinge a ritornare tra le braccia di Lord Alfred Douglas (Colin Morgan), mentre l’amorevole Robbie Ross (Edwin Thomas) e l’affettuoso amico di sempre Reggie Turner (Colin Firth) lo sostengono fino alla fine.
“It’s a dream” sussurra Wilde, quasi guardando in camera, perché The Happy Prince è un sogno che lo scrittore del De profundis fa a occhi aperti prima che la morte si avvicini. Attraverso uno stile funereo, Everett mostra il delirio narcisistico dell’artista senza riuscire però a gestire l’imponenza della figura. L’interprete de L’importanza di chiamarsi Ernest viene travolto da una smisurata passione per la materia trattata e schiacciato dai tipici cliché di un’esistenza “bohémien” tormentata.
La sensazione di claustrofobia che strozza la voce di Wild viene esaltata dal contrasto tra i versi carichi di sofferenza e l’edonistica rappresentazione dei momenti più significativi, sebbene il regista perda spesso il controllo dei due elementi. I vestiti del poeta nato a Dublino nel 1854 sembrano invece fatti su misura per Everett, capace di incarnare al meglio le vessazioni fisiche e psicologiche subite dall’intellettuale per le scandalose relazioni omosessuali.
L’interpretazione della Watson è l’unica in grado di tenere testa a un attore visibilmente desideroso di ricoprire un ruolo drammatico e di rivelare gli aspetti più intimi di Wilde. Ma la metafora de Il Principe Felice, ovvero di colui che ha ormai perso tutti gli “ornamenti”, non viene sviluppata a dovere dalla sceneggiatura. Con The Happy Prince Everett non scava veramente in profondità e rimane bloccato in superficie dalla retorica degli eccessi, rendendo poca giustizia all’innocenza del genio.
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