Se dovessimo immaginare un film sulla grande Maria Callas non possiamo non pensare a qualcosa di monumentale. A qualcosa – da vedere rigorosamente sul grande schermo – che ci lasci a bocca aperta, che ci travolga con le immortali arie da lei cantate nel corso della sua lunga e prolifica carriera, che ci offra, al contempo, uno sguardo privilegiato sulla tormentata vita dell’artista, divenuta leggendaria già dalle sue prime apparizioni in pubblico. Bene. A ciò ha pensato l’acclamato regista cileno Pablo Larrain con il suo Maria, presentato in anteprima mondiale in corsa per l’ambito Leone d’Oro all’81° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Maria, dunque, ci racconta l’ultima settimana di vita di Maria Callas (per l’occasione impersonata da una sorprendente Angelina Jolie), deceduta nel 1977 e già da tempo dipendente dai farmaci e in preda all’insonnia e a forti crisi depressive (ulteriormente aggravate dal fatto di aver perso la sua leggendaria voce e dalla morte del suo amato Aristotele Onassis). In questi ultimi giorni della sua vita, dunque, la cantante, nel suo appartamento di Parigi, dove vive insieme ai suoi fedeli servitori Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e Bruna (Alba Rohrwacher), ripercorrerà le tappe più importanti della sua vita, dalla sua infanzia difficile insieme a sua sorella e alla sua dispotica madre, fino ai suoi primi successi sulle scene e, non per ultimo, al suo turbolento rapporto con Onassis.
Immagini imponenti (rigorosamente girate in pellicola), primi e primissimi piani sul volto della protagonista, una serie di dissolvenze che ci mostrano la Callas ai tempi d’oro. Continui passaggi dal colore al bianco e nero (ossia dal presente al passato). Il reale e l’immaginato. Già, perché, di fatto, in Maria Pablo Larrain ha voluto mostrarci tutto esclusivamente dal punto di vista della celebre cantante, comprese le sue visioni, i suoi dialoghi immaginati con il misterioso giornalista Mandrax (con il nome dei medicinali da lei assunti), e i cori, al centro di Parigi, che accompagnano la protagonista durante le sue passeggiate in solitaria, intonando alcune delle sue più celebri arie.
Raramente sappiamo, infatti, durante la visione di Maria, dove finisca la realtà e inizi l’immaginazione. Maria Callas cerca disperatamente di tornare a essere la Divina che tutti hanno venerato (“il palcoscenico fa parte di me, è dentro di me”), cerca disperatamente la felicità di tempi gloriosi, la sua preziosa voce, ora esibendosi, al mattino, davanti alla sua governante, ora esercitandosi con un pianista all’interno di un teatro vuoto.
Maria è, dunque, un grido disperato verso la felicità, un canto del cigno che, pur avendo perso l’appeal di un tempo, non ha mai smesso di esercitare tutta la sua potenza. Momenti di pura poesia, inoltre, stanno ad arricchire, di quando in quando, il tutto (come, ad esempio, la scena in cui la cantante canta dal salotto di casa sua, mentre tutti i passanti in strada si fermano ad ascoltarla).
Pablo Larrain ci ha regalato, dunque, un ritratto di dolorosa bellezza, che va a completare una trilogia (iniziata nel 2016 con Jackie, dedicato a Jacqueline Kennedy, e portata avanti anche nel 2021 con Spencer, dedicato a Lady Diana, Principessa del Galles), rivelandosi, al contempo, ben al di sopra delle due opere precedenti.
In molti avranno piacevolmente notato anche il riferimento alla signora Kennedy, quale autocitazione che, senza mostrarci mai il personaggio, evita sapientemente ogni retorica.