Il celebre regista Tinto Brass è ormai famoso per le sue opere pregne di un importante erotismo, diventate di diritto colonne portanti del genere erotico italiano.
Eppure, in pochi sanno che, agli inizi della sua carriera, il regista veneziano, pur “sfiorando” (anche se, a volte, soltanto velatamente) tale genere, sembrava strizzare l’occhio a un cinema maggiormente arthouse, attingendo a piene mani da quanto realizzato in passato e cercando, al contempo, un proprio posto nel variegato mondo della settima arte.
Tale approccio, tuttavia, non gli ha garantito, a suo tempo, il successo sperato.
A partire dalla sua opera prima, Chi lavora è perduto, realizzata nel 1963 e che a causa dei temi trattati ha avuto non pochi problemi con la censura.
Al punto da “costringere” l’allora trentenne regista a cambiare addirittura il titolo iniziale (che originariamente era In Capo al Mondo).
A differenza di quanto si possa credere, però, tali problematiche non furono dovute a scene erotiche o simili. Ciò che maggiormente caratterizza il presente Chi lavora è perduto, infatti, è un categorico rifiuto nei confronti di schemi prestabiliti, di una società in cui tutti si aspettano determinate cose da noi, in cui la famiglia, il lavoro, la religione, il capitalismo continuano a dettare legge.
Ci troviamo, dunque, nella bellissima Venezia. Il giovane Bonifacio (impersonato da Sady Rebbot) si aggira tutto il giorno apparentemente senza meta per le strade della città.
Egli si è appena diplomato e deve cercarsi un lavoro. Peccato, però, che l’idea di lavorare non gli vada proprio a genio e pian piano inizi ad abbracciare idee fortemente anarchiche, discostandosi sempre più da ciò che, secondo tutti, avrebbe dovuto essere la sua vita.
Chi lavora è perduto, dunque, si presenta come un’opera straordinariamente innovativa e ricercatissima (anche) dal punto di vista stilistico, oltre che semantico.
Le idee anarchiche del protagonista hanno precedentemente portato alcuni suoi amici alla follia, al punto da farli rinchiudere in manicomio. Le profonde riflessioni che ne derivano assumono, dunque, quasi la forma di un continuo flusso di coscienza che, all’interno di una messa in scena coraggiosa e sperimentale, fa da protagonista assoluto sviluppandosi su più livelli.
Nel realizzare questo suo importante lungometraggio, come già menzionato, Tinto Brass ha fatto tesoro di quanto realizzato in passato, sia in Italia che nel resto del mondo. E così, di fianco a un puro realismo che potrebbe essere di diritto classificato come post Neorealismo, non possiamo non notare chiari influssi da parte della Nouvelle Vague francese e, in particolare, del cinema di Jean-Luc Godard.
Il nostro Bonifacio, dunque, ci appare immediatamente come una sorta di anti eroe apparentemente svogliato, ma che, con sarcasmo e con un fare spiccatamente divertito e irriverente non ha paura di mettersi contro tutto e tutti. E così, questo interessante Chi lavora è perduto si è rivelato immediatamente un film estremamente coraggioso, da tutti i punti di vista.
Un film che non ha paura di sollevare quesiti scomodi (vedi, ad esempio, le domande che vengono poste al protagonista durante un colloquio di lavoro) o di cercare a suo modo nuovi linguaggi.
Dopo un esordio del genere e dopo lo scarso successo dei suoi primi lungometraggi, Tinto Brass ha deciso di cambiare direzione, al fine di offrire al pubblico, su sua stessa ammissione, qualcosa che potesse “coinvolgerlo” maggiormente. E anche in questo caso si è affermato come autore a tutti gli effetti. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia.