Sembra risalire a quel peccato biblico che è stato nel 1982 E.T. The Extra-Terrestrial per Atari 2600 (videogioco, trasposizione del celebre film di Spielberg, cha ha fatto tremare le ginocchia all’intera industria) la maledizione che, ricaduta poi sulla prole quasi si fosse in una tragedia sofoclea, ha destinato a pessimi risultati qualitativi la maggior parte delle opere frutto di adattamento da un medium all’altro. Ma, dopo prodotti come Arcane o The Last of Us (e più modesti successi cinematografici quali, ad esempio, i film su Sonic e Detective Pikachu), la recente uscita di Fallout per Amazon Prime Video sembra sancire finalmente la rottura di questo flagello.

Tratta dall’omonima serie videoludica Bethesda, Fallout è stata sviluppata da Lisa Joy e Jonathan Nolan (fratello ed ex collaboratore del fresco vincitore degli Oscar Christopher, nonché già showrunner dell’ottima Westworld) e testimonia le fruttuose e ricorrenti disquisizioni sulla bomba atomica che devono aver tenuto banco nei pranzi domenicali in casa Nolan.

Non tanto una trasposizione quanto piuttosto un’espansione transmediale (la serie si inserisce nel canone narrativo dei videogiochi con una storia inedita), Fallout porta sul piccolo schermo un’ucronia nella quale il XXI secolo è ancora dominato da una retrofuturistica (e irresistibilmente affascinante) estetica anni Cinquanta, il mondo è sempre più dilaniato dalla contrapposizione tra il blocco degli Stati Uniti d’America e quello dei “Rossi” (Cina e Unione Sovietica) e la multinazionale della Vault-Tec si prepara a un apparentemente imminente olocausto nucleare costruendo bunker sotterranei.

Nel 2296, due secoli dopo l’avverarsi di quell’apocalittico evento, Lucy MacLean (Ella Purnell), abitante di un Vault alla ricerca di suo padre rapito (interpretato da un Kyle MacLachlan in rispolvero), Maximus (Aaron Moten), un membro di una confraternita dotata di incredibili armature da combattimento, e Cooper Howard (Walton Goggins), un ex stella del cinema western divenuta a causa delle radiazioni un ghoul spietato, intrecceranno i propri destini nella pericolosa Zona contaminata alla ricerca di un medesimo scienziato (o forse solo della sua tesa).

Grazie a un comparto tecnico d’eccezione (scenografie, trucco e visual effects su tutti) capace di sfruttare a pieno gli ingenti mezzi di produzione di Jeff Bezos (all’altezza dei blockbuster hollywoodiani già ne Gli Anelli del Potere dove a essere carente era, però, la scrittura), Fallout ritrae con profonda fedeltà tutto il fertile potenziale immaginifico del worldbuilding originario. Oltre a elementi che faranno sorridere gli appassionati di lunga data (non solo easter egg, ma anche dinamiche videoludiche transcodificate come le quest, il companion a quattro zampe o le abilità dei giochi di ruolo), un’ammaliante colonna sonora proveniente direttamente dalla metà del secolo scorso (si va da Nat King Cole a Crosby, Cash e Sinatra) porge il fianco a una spiccata ironia grottesca che si riverbera anche in scene di uno splatter goliardico (qui il modello, invece, è The Boys).

Così, se già non bastassero tali componenti, Fallout riesce ad amalgamare all’interno di un’iconografia nuova tutta una serie di motivi e atmosfere provenienti molto dal western, ma anche dall’horror post apocalittico, dal sci-fi thriller e persino dal fantasy (alcune mostruose creature e l’ordine di “cavalieri” della Confraternita d’Acciaio), dichiarando così la sua natura di variegato pastiche postmoderno. In questo universo carnevalescamente variopinto, Jonathan Nolan furbamente mantiene a freno la narrazione facendola indugiare nell’intrigante dimensione spaziale della Zona contaminata, per poi andare a ritroso al fine di scoprire scabrosi retroscena nel passato dei protagonisti (d’altronde, seguendo la ricetta di famiglia, non potevano mancare eclatanti colpi di scena).

A essere più incisivamente affascinante è dunque il personaggio del ghoul, ponte tra il passato pre-olocausto nucleare e il presente, che dona finalmente a un grande caratterista come Walton Goggins l’occasione per una performance da ricordare. Affascinante versione putrefatta di un Henry Fonda in C’era una volta il West, in un rispecchiamento tra finzione e realtà (già visto nella prima puntata con la meravigliosa scena del Vault 33 in cui la pellicola cinematografica che brucia rievoca le esplosioni atomiche), Cooper Howard finisce nel mondo post apocalittico a “reinterpretare” (con annesso cambio di dizione di uno straordinario Goggins) quel cowboy che lo aveva reso celebre al cinema.

Se era facile immaginare in Fallout un classico capovolgimento (e annullamento) delle polarizzazioni tra buoni e cattivi in un mondo alla deriva dominato dalla violenza, ciò che era assolutamente inaspettata è la componente spiccatamente satirica che si dipana dopo i primi episodi. Persino con un riferimento, neanche troppo velato, al capolavoro di Kubrik Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, la serie aggiunge substrati di senso concedendo anche acide riflessioni distopiche sul capitalismo e le multinazionali, sull’industria bellica (tanto influente in America) e sulla disuguaglianza brutale tra classi sociali.

Azzardando una libera trasposizione da un videogioco Fallout come Arcane, e dunque più di un The Last of Us che fa una (pur eccellente) copia carbone del materiale originale, riesce nella creazione di una serie capace di affascinare e entusiasmare neofiti e non. La sfida è però rilanciata verso una seconda stagione (già annunciata) in cui probabilmente non basteranno più flashback e colpi di scena per mantenere alto l’interesse.