Pochi sono quei cardini inamovibili su cui, generazione dopo generazione, critici e cinefili concordano nell’affibbiare il pomposo e incensatorio epiteto di capolavoro (termine paradossalmente sempre sulla bocca di tutti, ma per molti inutile poiché abusato). Al di là di strane forme di divertissement che qualche intellettuale annoiato potrebbe proporre, (lecite) rivisitazioni e ampliamenti del canone della storia del cinema non hanno scalzato opere seminali quali gli orami prevedibili Quarto potere di Orson Welles o 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, ma, tra questi, si inserisce di diritto anche La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock.

Stabilmente nelle primissime posizioni della classifica stilata decennalmente dalla prestigiosa rivista inglese Sight and Sound, Vertigo (titolo originale del film certamente più ermetico, ma altrettanto intrigante) se all’uscita era passato in sordina per poi essere rivalutato negli anni Sessanta, oggi invece viene sopra (e contemporaneamente sotto) valutato, pagando così quello che è l’inevitabile scotto di definire un’opera tanto complessa con un unico termine, quello per l’appunto di capolavoro.

La narrazione caleidoscopica di La donna che visse due volte mette in scena un amore perverso (non a caso uno dei principali casi studio del bel documentario Guida perversa al cinema del filosofo Slavoj Žižek) apparentemente capace di valicare il confine tra la vita e la morte generando uno spazio liminale fantasmatico all’interno del quale si muovono Scottie e le varie rifrazioni della donna amata (un’accoppiata alchemica perfetta quella tra i divi James Stewart e Kim Novak).

Infatti il protagonista, un ex poliziotto dimessosi a causa della sua acrofobia indotta dal trauma di aver visto un collega precipitare nel vuoto, viene contattato da un suo vecchio compagno di collage per sorvegliare sua moglie Madeleine. La donna, affetta da strani episodi di amnesia, sembra inquietantemente connessa con la bisnonna materna, Carlotta Valdés, la quale morì suicida. Sulle orme di questa spiritica presenza, Scottie discenderà centripetamente in un vortice di passione e scabrosi segreti.

Nell’incedere spiraliforme e stratificato di un racconto ricco di colpi di scena, se il tema perturbante del doppio (che riverbera nella splendida figura femminile, dall’essenza diafana, spesso inquadrata in controluce o riflessa negli specchi) in Io ti salverò era scolasticamente inserito da Hitchcock in un contesto psicanalitico che costituiva l’oggetto centrale della pellicola, in La donna che visse due volte è invece distillato con maggior potenza nell’atmosfera di un desiderio erotico fantasmatico.

Questo sentimento, condotto quasi fino alla misoginia e alla necrofilia nel tentativo di “ricucire” (dopo anche la dissezione operata dalla macchina da presa nei titoli di testa) le fattezze di una defunta su un’altra donna, è feticisticamente incarnato in una figura femminile che, quasi fosse una medium, si concede alla permeabilità di energie spiritiche.

Le inquietanti atmosfere thriller de La donna che visse due volte trovano una corrispondenza formale (ricercatissima grazie anche alla fotografia di Robert Burks) capace di amplificarne esponenzialmente le emozioni. Se, difatti, non bastasse l’invenzione da parte dell’autore durante le riprese del celeberrimo effetto Vertigo (uno zoom in avanti e una carrellata indietro a dare la percezione cinematografica delle vertigini) e della scena onirica del protagonista (straordinaria potenza grafica che, insieme ai titoli di testa, raggiunge l’impatto visivo della videoarte o della sinfonia visiva), vi è anche un uso incredibilmente suggestivo dei campi lunghi in cui gli spazi sembrano dare plasticità ai sentimenti in maniera quasi impressionista e un’accuratezza nella composizione cromatica che comunica a livello inconscio direttamente con lo spettatore.

Considerando la definizione di un classico di Italo Calvino, il quale scrive: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», appare evidente quanto La donna che visse due volte non solo abbia influenzato i cineasti che lo hanno seguito, ritrovandolo come eco, ad esempio, nei rapporti di rifrazioni e diffrazioni tra figure femminili in altri capolavori come Persona di Ingmar Bergman e Mulholland Drive di David Lynch; ma l’opera di Alfred Hitchcock dimostra ancora, a distanza di più di sessant’anni, tutta la sua straordinaria modernità nella sua nolaniana costruzione di una storia labirintica (eleggibile quasi come capostipite del mind-game film), nella magnifica scena illuminata da un neon verde di refniana memorie e, forse, anche per un sadismo misogino alla Von Trier.