Entrando in quella fase dell’anno in cui s’inizia a sentire profumo di Oscar, è giusto a questo proposito parlare di Empire of Light.
L’ultima fatica del regista Sam Mendes, con protagonisti Olivia Colman e Michael Ward, ci riporta in un’epoca di rinascita e di sognatori, dove la vita era ancora estremamente distante dai canoni odierni.
Il suo precedente film, vale a dire 1917, aveva riscosso un importante successo nel 2019, assicurando al direttore della fotografia Roger Deakins il suo secondo Oscar in carriera.
Nel caso di Empire of Light, l’Academy ha ritenuto sufficiente concedere una sola candidatura alla pellicola, proprio quella per la fotografia, sempre curata da Deakins. Se si scava un attimo più a fondo, i motivi di questa scelta sembrano quantomeno comprensibili.

Siamo nella Gran Bretagna del 1981, una terra precipitata nella recessione e smossa da un razzismo sistemico. Agli occhi dei comuni mortali, il cinema appare come la sola via di fuga in questo periodo buio. Ad illuminare la via, il cinema Empire si fa strada nella foschia, con le sue insegne luminose e l’atmosfera trasognante. Gestito da Mr. Ellis (Colin Firth), un dirigente burbero e opportunista, nel tempo l’Empire ha dovuto chiudere due delle sue quattro sale.
La vera anima della struttura però è Hilary (Olivia Colman), donna di mezz’età che ripone nella struttura tutte le sue speranze. È diligente e meticolosa, nonché cara allo staff grazie ai suoi modi delicati.
Sotto questo velo d’armonia, tuttavia, si nasconde un passato travagliato, ed un presente che risente molto dei suoi demoni silenti. A dare una scossa a questa stasi psichica sarà Stephen (Michael Ward), neoassunto nel personale dell’Empire che, grazie ad una serie d’incastri sentimentali, movimenterà la vita di Hilary come nessuno mai aveva provato a far prima.

Ci sono diverse problematiche alle fondamenta della pellicola che ne riducono drasticamente la godibilità. Prima fra tutte vi è l’estrema prevedibilità dell’evoluzione dei fatti.
La trama si snoda in modo molto canonico, forzando lo spettatore ad assistere a sviluppi della storia che sembrano innaturali a dir poco.
Il personaggio interpretato da Olivia Colman (che ricorda un po’ quello scritto sempre per lei in The Lost Daughter) è di base antipatico, incapace di creare empatia con lo spettatore e privo di reazioni umane giustificabili. Se a questo si aggiunge l’inspiegabile storia d’amore che ne viene fuori tra Stephen e Hilary, il risultato è un mix di soluzioni obbligate, cliché e scelte narrative discutibili, il tutto riversato in una storia che non coinvolge, sa di già visto e lascia lo spettatore con più di una perplessità.

A brillare per davvero è l’estetica e l’attenzione per la fotografia, non a caso curata dalle magiche mani di Roger Deakins. Parliamo dei contrasti cromatici, della scelta delle palette, delle tinte tenui ma allo stesso tempo d’impatto. Se ci si limita a questo, Empire of Light è una meraviglia per gli occhi, ma il tutto viene fortemente penalizzato quando si giudica l’opera nel suo complesso.
Appare chiaro che la sola candidatura alla miglior fotografia sia una scelta condivisibile. Sam Mendes, dopo una parabola straziante e ricca di pathos come 1917, si limita a portare nelle sale un’opera insipida, sostanzialmente vuota, confezionata tuttavia nel migliore dei modi.