Bibbia e budella: sono questi i due ingredienti fondamentali di Hacksaw Ridge, il film di Mel Gibson passato fuori concorso a Venezia 73.
Nel raccontare la storia di Desmond Doss, primo obiettore di coscienza ad aver ricevuto la Medaglia d’Onore per aver salvato 75 uomini durante la battaglia di Okinawa senza imbracciare mai un’arma, Gibson fa largo uso di entrambe. Il risultato è un’opera divisa in due, che parte con un’introduzione retorica sulla fede religiosa del protagonista e la sua battaglia per restare nell’esercito pur rifiutandosi di toccare armi e di uccidere, e prosegue con cento minuti di macelleria fine a se stessa, noiosa da un punto di vista narrativo, inutile da quello estetico, pericolosa da quello etico.
Il paragone che viene subito in mente è con la fantomatica apertura di Salvate il sodato Ryan, ma Gibson non è Spielberg e il controverso divo australiano fa qui lo stesso errore che aveva già fatto in altre sue pellicole, confondendo la carneficina con la sofferenza, l’orrore con il dolore. Nonostante l’invadente musica enfatica e un’abbondante iniezione di retorica sia nei dialoghi che nelle immagini, manca nel film qualsiasi forma di pathos e di epica, l’interesse verso i personaggi e il loro destino praticamente nullo; si salva in parte il protagonista, grazie alla faccia simpatica da eterno ragazzo di Andrew Garfield.
Il personaggio scelto da Gibson per lui lascia però aperto più di un interrogativo. Desmond Doss, seguendo i comandamenti e le rigide regole degli Avventisti del Settimo Giorno, non uccide e non prende armi; d’altra parte però non condanna la guerra, vista come un’azione assolutamente necessaria per combattere i terribili giapponesi, nemici quasi invisibili, ombre dai tratti orientali descritti come unni assetati di sangue.
Lontana la complessità di Clint Eastwood che con la doppietta Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jiwa aveva raccontato dai due punti divista le contraddizioni del conflitto: nel film di Gibson non c’è spazio per i dubbi, anzi tutti sono assolutamente fermi nelle proprie posizioni. Fa bene il protagonista a non voler usare le armi, fanno bene gli altri ad usarle: una ragione di tutti e di nessuno che non mette mai in discussione la legittimità della guerra. Gibson cerca di far passare la fede cieca in un principio accettato per dogma per un caso di coscienza, di mischiare l’etica dell’obiezione con una visione della guerra da Berretti Verdi (l’improponibile versione targata John Wayne di un Vietnam ridotto a scontro tra indiani e cowboy).
La trasformazione del protagonista in una figura mistica ai limiti della santità (con tanto di mani ferite e fasciate come se avesse le stigmate) e la benedizione finale che il giovane eroe impartisce ai soldati pronti all’attacco decisivo, rende chiaro che la storia di questo sedicente obiettore non è affatto scomoda e complessa come ci vuole far crede Gibson ma confortevole come un divano a tre posti e lineare come un’autostrada a doppia corsia.
[…] La Battaglia di Hacksaw Ridge è un film bellico che racconta la guerra dal punto di vista ideologico di un personaggio che ha un credo radicale e fermo. Un ragazzo che combatte per la Patria e per la sua ideologia, portando un grande fardello sulle sue spalle. Il soldato pacifista crede fermamente che l’arma più importante sia la fede in Dio. E sarà proprio grazie ad essa che non solo si salverà, ma sarà in grado di aiutare gli altri commilitoni. Naturalmente, Mel Gibson non si risparmia nel mostrarci le atrocità della guerra. […]