Mentre a Venezia è appena iniziata la corsa al leone d’oro proviamo a dare uno sguardo retrospettivo alla storia del nostro cinema per stilare un elenco di film che meritano di essere salvati tra i tanti prodotti nell’arco di oltre un secolo. Anche noi, va riconosciuto, in un contesto culturale provinciale abbiamo avuto autori dal respiro europeo e molti artigiani bravi nel lavorare i generi, seppure in misura minore rispetto ad altre cinematografie come quelle degli Usa, della Francia e della Russia.
Di grandi registi italiani come Antonioni, Pasolini, Ferreri e Fellini indichiamo soltanto un titolo, quello che ci sembra più esemplare della poetica di ciascuno di essi. Tra i film di Antonioni la scelta non può che andare a Professione reporter (se non altro per il memorabile lungo piano-sequenza nel prefinale attraverso il quale la morte del protagonista viene suggerita senza venir mostrata grazie a un prodigioso carrello in avanti che ci fa uscire dalla stanza per poi riportarci dentro dopo un percorso semicircolare all’esterno intorno alla piazza antistante l’albergo), mentre di Pasolini è La ricotta a meritare la preferenza (per la sua forma di dissacrante apologo alla maniera di un tableau vivant sulla deposizione di Cristo dove a morire in croce è l’umile e affamata comparsa Stracci vittima di una indigestione di ricotta e dove Pasolini fa pronunciare al personaggio del regista impersonato da Orson Welles una requisitoria sul cosiddetto “uomo medio” qualificato come razzista, fascista, opportunista e antifemminista), di Ferreri  il migliore resta Dillinger è morto (per il gusto visivo pop e i dialoghi ridotti al minimo all’interno di una narrazione debole ispirata al comportamentismo e dal taglio fenomenologico) e di Fellini resta La dolce vita (basterebbe solo la sequenza iniziale dell’elicottero che trasporta la statua di Cristo volando sui terrazzi dei condomini di Roma da dove donne in bikini che prendono il sole salutano da lontano la sacra effige per compendiare la riflessione del regista sulla decadenza dell’ impero apostolico romano).

Oltre ai quattro titoli ricordati altri ce ne sono che non sfigurano nell’elenco in virtù del loro valore artistico, titoli forse meno famosi ma da ricollocare al posto che meritano. Parliamo di Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli (l’unico film in puro stile nouvelle vague girato nel 1965 da un italiano molto bravo nei ritratti di personaggi femminili), parliamo di  Non c’è pace tra gli ulivi diretto nel 1950 da Giuseppe De Santis  per la tecnica brechtiana applicata al racconto di un melodramma rusticano sullo sfondo di un paesaggio naturale esaltato dalla fotografia in bianco e nero), parliamo di Ercole alla conquista di Atlantide di  Vittorio Cottafavi  uscito nel 1961(originale fusione di mitologico e di fantascienza  che non senza ironia mette in guardia contro ogni regime totalitario passato, presente e futuro) e parliamo anche di L’imperatore di Roma diretto e autoprodotto nel 1983 da Nico D’Alessandria (per lo stile dissonante con cui viene seguito il calvario di un giovane tossico pedinato dalla cinepresa nella sua erranza tra i monumenti romani e il cinismo della gente). Infine due titoli presi dai generi entrambi insuperati, il primo è Suspiria di Dario Argento del 1977 (favola horror dalla pura astrazione visiva che la fotografia di Tovoli trasforma in un incubo  dalla figurazione tra simbolismo e art nouveau),il secondo è Totò le Mokò girato da Carlo Ludovico Bragaglia nel 1949 (per i tanti numeri comici in cui si esibisce un Totò in versione cubo-futurista scatenato più che mai).
I lettori,come si fa in questi casi,sono invitati a comunicare la loro lista personale con un minimo di motivazione estetica (e non solo tematica, perché le buone intenzioni non bastano a fare buoni film).