Un romanzo di culto, un regista di culto, un film così così.
Michel Gondry porta sullo schermo il celeberrimo romanzo di Boris Vian “La schiuma dei giorni”: Colin (Romain Duris) vive in una strana casa nel cuore di Parigi, con un minuscolo topo antropomorfo e con il suo Chef personale, non che assistente, Nicolas (Omar Sy). Durante una festa Colin conosce Chloè (Audry Tautou): tra i due nasce la passione che li porterà dopo sei mesi a sposarsi. Pazzo di gioia, Colin suggerirà a Chick (Gad Elmalesh), amico fraterno e compagno di “piano-cocktail”, di sposare la sua ragazza storica Alise e vivere felice come lui. Colin donerà all’amico un’ingente somma di denaro per organizzare il matrimonio, ma Chick spenderà tutto nell’acquisto di opere di Jean Sol Patre, filosofo esistenzialista, chiara parodia di Jean Paul Sartre. Le nozze di Chick saranno rimandate, ma parteciperà attivamente allo sposalizio dell’amico. L’idillio amoroso di Chloè e Colin è interrotto dalla curiosa malattia della ragazza: una ninfea le cresce nel petto e l’unico modo per tenere a bada il progredire di questo strano morbo è quello di coprire costantemente il corpo della ragazza con fiori freschi. Per curare la ragazza Colin spenderà tutti i suoi averi e una volta finiti i soldi farà ogni sorta di lavoro.
Gondry, attraverso svariate tecniche cinematografiche che vanno dallo stop-motion a semplici sovrimpressioni, costruisce un universo parallelo e surreale con strane invenzioni, pazzesche dimore, cibo animato, e oggetti vivi. L’effetto fiabesco è sicuramente ottenuto e riuscito e a tratti affascina anche, ma alcune cose, come le gambe che si allungano a dismisura durante i balli (lo “struscia-struscia”), o le scene del pattinaggio sul ghiaccio, fanno storcere il naso anche allo spettatore più coinvolto.
La parte più interessante della pellicola è quella che verte verso il dramma, veramente bella e dolce l’immagine del fiocco di neve che, ingerito nel sonno da Chloè, le ammala il cuore. La parabola discendente della salute della ragazza è ben resa dall’immagine dei fiori, unica salvezza per lei, ma destinati miseramente ad appassire. La malattia stravolge le vite di Colin e Chloè, trasforma non solo i loro corpi, ma anche la loro abitazione che sfiorisce insieme a loro, fino a ridursi alle dimensioni di un topo, testimone impotente della rovina economica del suo amico-padrone e della caducità dei corpi.
Lo stile di Gondry in questo film è particolarmente barocco, troppo ricco visivamente e a volte ridondante, sembra che il cineasta transalpino si sia chiuso in una ricerca spasmodica e schizofrenica di immagini oniriche e surreali che soffocano gli attori tanto quanto gli inermi spettatori. Gondry ha, in certo senso, perso il modo di narrare fluido e convincente di film come “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” o di “Be kind rewind” in favore di un personale surrealismo fatto di effetti speciali e di immagini curiose.
“Mood indigo” appassiona: è piacevole, struggente, ma forse troppo carico visivamente, fino a disturbare lo spettatore: così come la ninfea distrugge l’amore di Colin e Chloe la ricerca convulsiva dello stile distrugge un film sicuramente romantico e delicato ma, come l’amore, a volte solo illusorio.