Il titolo di “peggior regista di tutti i tempi” è qualcosa di cui pochi andrebbero fieri, eppure è con tale definizione che ancora oggi è ricordato da molti con affetto Edward D. Wood Jr, sicuramente tra i direttori di cinepresa più strani, atipici, visionari e privi di talento che si siano mai visti.

Tim Burton però, adorava quel regista, capace in vent’anni di carriera, se non di anticipare, perlomeno di porre le basi per quella parte della settima arte, che comunemente viene definita cinema di genere.
Creativo, instancabile, narcisista e improvvisatore senza alcun rimpianto, il suo Ed Wood beneficiava della straordinaria interpretazione di un Johnny Depp in stato di grazia.

L’iter narrativo pare dal 1952, anno successivo all’uscita dei primi due cortometraggidi Ed Wood, in cui Wood stava preparando il suo esordio vero e proprio nel cinema: Glen or Glenda, film dedicato alla vicenda di Christine Jorgensen, una delle prime persone note per aver effettuato una trasformazione di sesso. Naturalmente la sua opera prima fu un fiasco terrificante.

Ed Wood a molti, pur deliziati dall’ironia, dalla leggerezza e vitalità dell’iter narrativo creato da Burton, lasciò un po’ interdetti per il tono assolutorio con cui dipinse la figura di un uomo incredibilmente cinico, opportunista, mentitore, quasi un truffatore e che si dimostrò quasi sempre un organizzatore e un regista caotico e confusionario.

Tuttavia, al di là dell’eredità di un cult come Plan 9 from Outer Space la sua figura è ancora oggi mitica tra i registi di B-movies e cinema indipendente. Burton strutturò però quel film, soprattutto in chiave autobiografica, creando un fortissimo parallelo tra il rapporto di stima ed amicizia che legava Wood e il vecchio Bela Lugosi e quello che tra egli stesso e il grande Vincent Price.

Il vero centro di Ed Wood è proprio il sostenersi a vicenda, l’essere sostanzialmente simili, di quel giovane e sconclusionato regista e di quel vecchio divo del grande schermo che fu.
Entrambi guidano le proprie vite al limite, entrambi si nutrono di bugie ed illusioni, sono condannati ad essere emarginati senza speranza dalle alte sfere di quel mondo che per loro, bene o male, significa tutto. Nella realtà, sono entrambi lo stesso personaggio, lo stesso destino, la stessa vita rassegnata a spegnersi nell’oblio e nell’indigenza.

Elogio dell’amore per ciò che si fa a dispetto del talento? Inno alla coerenza di voler inseguire i propri sogni? Oppure omaggio al concetto di libertà creativa? Ed Wood fu probabilmente un po’ tutte e tre queste cose. Ma soprattutto fu un grandissimo film, per la capacità innata da parte di Burton, di rendere avvincente, quasi avventuroso, il continuo peregrinare da un fallimento all’altro, da una caduta ad un’altra.
I sotterfugi, le bugie, gli accorgimenti con cui Wood prosegue nella sua crociata artistica, catturano la simpatia dello spettatore, ma sono anche l’autopsia di un modus operandi assolutamente caotico e senza costrutto, con la totale mancanza di mestiere del protagonista, la sua incapacità di fermarsi mentre col sorriso sulle labbra, crea l’ennesimo disastro.

Burton però fece di più, illuminò il mondo violento, squallido e impietoso dell’industria cinematografica, ci parlò di quell’universo fatto di compromessi, megalomania, pochissimi soldi e ricatti, della gavetta che molti cineasti (lui compreso) avevano dovuto affrontare, di come i sogni del grande schermo spesso significassero incubi per chi vi stava dietro.
Eppure da lì, da quei B-movies trascurabili, Burton trovò la base per il proprio cinema, per la propria visione autoriale, per quelle atmosfere a metà tra fantasy, horror vintage e malinconia, che l’hanno reso un punto di riferimento unico nella settima arte. Mars Attack! Il Mistero di Sleepy Hollow, Edward Mani di Forbice, sarebbero stati altri omaggi del regista a quel mondo fatto di caos, fantasia, incoerenza e improvvisazione.

Allo stesso tempo, Ed Wood fu anche uno specchiarsi in una visione della vita come fedeltà a se stessi, come diversità dalla norma, come volontà di non essere mai qualcosa di diverso da ciò che si è.
Il che in fin dei conti emerge anche nello straordinario confronto e dialogo finale tra quello squattrinato ed improbabile regista, ed un mostro immortale come Orson Welles, in quel bar dove scopriamo, assieme ad Ed, che entrambi hanno le stesse paure, gli stessi problemi, ma anche la stessa identica passione.

Sicuramente centrarono l’obbiettivo quanti dissero che parlando di Wood, Burton in realtà parlava soprattutto di se stesso, forse con un tono un po’ troppo elegiaco. Tuttavia è innegabile che in generale l’opera sia pervasa da un senso di fallimento, di tragedia e di morte, che lo rendono l’immagine speculare, l’alter ego del mito del successo americano, del self-made-man, del giovane regista esordiente che contro tutto e tutti, agguanta il successo.
Wood non fu come Spielberg o Lucas o neppure Burton. E la differenza tra loro e lui, ci viene suggerita più che nel suo talento, nel fatto di non aver avuto l’opportunità, di essere nato in un’epoca sbagliata, in quella Hollywood conformista e conservatrice, banale e artefatta.
Forse il suo film più personale da molti punti di vista, di certo quello più atipico, più distante dal mondo della fantasia perché posto all’esterno di esso, nell’iter produttivo, in ciò che il pubblico non vede e non vuole vedere quando entra in sala per perdersi dentro quel grande schermo.