Nel nostro Paese, pochissimi registi sono più divisivi di Paolo Sorrentino.
Napoletano, un’intera carriera passata a staccarsi dai cliché del cinema italiano e a raccontarci in modo grottesco, feroce e viscerale pregi e difetti, contraddizioni e bellezze di una società, di una Italia unica nel loro genere.
Parlare del cinema di Sorrentino vuol dire parlare di un regista incredibilmente coerente, sempre molto fedele a se stesso ed incapace di accarezzare il pubblico generalista nel modo giusto, quanto piuttosto deciso nel rivendicare unicità di sguardo e un percorso personale che gli hanno procurato sia grande ammiratori che (ovviamente) grandi oppositori.
Parlare dei film di Sorrentino vuol dire fare un viaggio dentro alcuni dei titoli più importanti e più acclamati del cinema contemporaneo, gettare uno sguardo su un autore che non si è mai dimostrato assolutorio o clemente verso la società italiana, in particolare verso Il nostro passato, i nostri protagonisti e quei momenti storici che ci hanno reso uno dei paesi più contraddittori.
L’Uomo in più (2001)

Ancora oggi secondo molti, il suo film più intimo, più romantico, più onesto è riuscito.
La storia di due uomini divisi da tutto, percorsi, carattere, ambiente e destino, ma accomunati dal nome, nonché dal ritrovarsi completamente perduti dentro un vortice di isolamento, autodistruzione e malinconia.
L’uomo in più è tra i film più onesti e sinceri verso il decennio degli anni ’80 che di fatto viene sovente mitizzato o elevato in virtù di una non meglio specificata nostalgia, quando invece fu un periodo che alquanto barbaro, consumista e votato ad un disimpegno stomachevole.
Per Sorrentino, l’Italia da bere degli anni ’80 somigli molto al mondo del calcio di quegli anni, descritto non come il campionato più bello del mondo (forse lo era), ma come specchio di una società ipocrita in cui gli onesti ed i migliori vengono totalmente emarginati in base ad una sorta di selezione naturale al contrario dalla quale emergono come vincenti i peggiori e i più corrotti.
I due Pisapia sono un artista decaduto e decadente (ispirato a Franco Califano) che ha il volto di un malinconico e mutevole Toni Servillo, semplicemente straordinario nel mostrarci l’implosione di un personaggio incoerente e narcisista, superficiale e materialista, al quale si contrappone la timida, ma granitica esistenza del Pisapia calciatore, interpretato da un bravissimo Andrea Renzi (personaggio creato ad immagine e somiglianza del capitano storico della Roma Agostino Di Bartolomei).
Privo degli eccessi di manierismo e del sovraccarico audiovisivo che avrebbe caratterizzato i suoi futuri lavori, questo film è anche il migliore mai fatto sul calcio nel nostro paese, su questa religione pagana e crudele che soffoca qualsiasi altra cosa.
La Grande Bellezza (2013)

L’Oscar con cui questo lungo, stilisticamente ineccepibile, viscerale in modo quasi insopportabile è stato premiato, a conti fatti ancora oggi è un ulteriore motivo di divisione per il pubblico e la critica italiani.
La grande bellezza, per chi scrive, è uno dei più grandi film che il nostro paese abbia avuto negli ultimi 25 anni, un ritratto spietato e pure pieno di sentimento, un’istantanea della fine di quel regno dell’immoralità e del materialismo noto come berlusconismo.
Sorrentino ci fa seguire i passi adesso Jep Gambardella, armato del cinico charme e dell’elegante disillusione di un Toni Servillo semplicemente monumentale.
La sua Roma è solo apparentemente la stessa Roma del La dolce vita di Fellini o de La terrazza (romana) di Ettore Scola, opere sicuramente accomunate dal vorrei farci comprendere quale universo complesso, contraddittorio e magnifico sia la Caput Mundi.
Sicuramente La grande bellezza ha dei difetti, su tutti una prolissità non sempre giustificata dal punto di vista semiotico e narrativo, tuttavia rimane un’opera di quasi dolorosa bellezza e sentimento, capace di colpire nel profondo perché universale nel suo dipingere la tragedia dell’animo umano, il vuoto inconsistente di esistenze votate al dio del successo piuttosto che ai propri sogni.
La grande bellezza è tante cose insieme, volendo in modo anche anarchico e opprimente, è un film sull’addio alla giovinezza, non inteso però come addio ai sogni o alla speranza.
Di riflesso si agita anche una profonda condanna all’establishment culturale italiano, alla sinistra intellettuale, descritta come vuoto è sterile gruppo autoreferenziale.
Questo ultimo aspetto forse spiega perché il film sia stato tanto detestato da noi in patria: perché al contrario dei cinepanettoni o del cinema nazional-popolare che ammorba i nostri schermi da sempre, ha avuto il grande merito di dipingerci per quello che siamo, per quello che vogliamo, per quello che siamo diventati: un popolo materialista, egoista, reso primitivo dal mito catodico del Cavaliere di Arcore.
Il Divo (2008)

Il film in assoluto più feroce mai dedicato ad un singolo personaggio storico italiano.
Sorrentino con Il Divo ha offerto al pubblico il suo Giulio Andreotti, una creatura felpata, ineffabile, più che viscida semplicemente un monumento all’essere il più possibile respingenti verso l’esterno.
Questo biopic che si nutre di un’ironia acre e grottesca, non rifugge però anche la vocazione civile, per quanto connessa ad un’instabilità narrativa (il maggior pregio del film) sorprendente e assolutamente non lineare.
Chi è stato il vero mostro? Lui, Il Divo, la Volpe, il politico in assoluto più misterioso, controverso e contorto della nostra storia? Oppure gli italiani, i suoi scherani, i suoi Cortigiani ed in generale quel mondo che ne fece il proprio cardine di equilibri e compromessi?
A questa domanda Sorrentino non pare intenzionato a voler dare una risposta univoca o definitiva, ciò che però ci arriva è il ritratto di un mondo più folle della più folle fantasia, un universo abitato da nani, ballerine, prostitute (sia politiche che non), perfetto nell’azzerare il mito della malinconia per la bella Italia che fu, quella degli accordi sottobanco tra stato e mafia, dello stragismo, della corruzione dilagante e onnipresente.
Film molto più corale di quanto sembri, Il Divo ha tuttavia ancora una volta in Toni Servillo uno straordinario protagonista, semplicemente perfetto con la sua capacità di lavorare in sottrazione, senza però togliere nulla dell’incredibile comunicatività che aveva il Gobbo per eccellenza.
Ci rimarrà sempre il dubbio di cosa ne avrebbe pensato proprio lui, Andreotti, scomparso solo poche settimane prima che il film uscisse in sala, raccogliendo un enorme successo di critica e pubblico.
Così, ad intuito, probabilmente avrebbe continuato a girare i pollici delle sue mani conserte per 110 minuti.
[…] e odiato, visionario o criptico, il suo riconoscibilissimo e identitario marchio segue Sorrentino sia sul grande che sul piccolo schermo. C’è da dire che le due serie tv, create e dirette […]