The Legend You Know. The Story You Don’t. La tagline dell’ennesimo racconto sulle vicende di Robin di Loxley parla chiaro: non abbiamo ancora letto e visto tutto sull’eroe che rubava ai ricchi per donare ai poveri, vessati dalla schiacciante piramide sociale del feudalesimo medievale. Dopo una miriade di frecce animate e scorribande tra boschi e stanze del tesoro reale, ora siamo pronti a essere catapultati nell’universo di Robin Hood l’origine della leggenda, un action (più o meo) in costume che mette a ferro e fuoco tutto l’immaginario costruito in precedenza.
L’ennesima trasposizione cinematografica del mitico principe dei ladri è un lavoro del regista televisivo britannico Otto Bathurst, autore di serie di successo come Peaky Blinders, ed è prodotta da Leonardo Di Caprio in persona, attraverso la sua Appian Way Production. Il titolo (non proprio) originale di questo film è semplicemente Robin Hood.
Si tratta di una versione della storia molto più moderna e movimentata. Il primo atto del film segue il buon Robin (interpretato da Taron Egerton che è attualmente impegnato in scene di sesso gay per le riprese dell’attesissimo Rocketman) durante l’assedio in Terra Santa. La Crociata contro gli infedeli è sanguinosa e truculenta, con mutilazioni, sangue a fiumi e coreografie bellicose degne di un teaser di Assassin’s Creed. Anche l’atmosfera generale del film sembra a tratti quella di un videogioco violentissimo, ma questo non è un difetto. Le soggettive e i campi lunghi esplosivi e fiammeggianti sono magistralmente amalgamanti insieme per fornire un’esperienza visiva sorprendente.
Di rientro dalle Crociate, Robin torna nell’amata Inghilterra, ma trova la sua dimora devastata e la sua amata tra le braccia di un altro. Marion (l’irlandese Eve Hewson, figlia di Bono degli U2) è diventata una speranza per la popolazione oppressa dalle tasse e, mentre Robin guerreggiava nel Vicino Oriente, si è concessa al leader dei poveri Will (Jamie Dornan).
La Nottingham di questo film, medievaleggiante e piena di anacronismi, non è appesantita dalle cinture di castità e dagli enormi spadoni. Il regista compie precise scelte di ammodernamento estetico nei confronti della favola di Robin Hood. La tirannia è incarnata da altezzosi trench di pelle e il popolo invece dalla felpa con cappuccio (hoody in inglese), ma non è per questo che Robin, al suo ritorno, è incazzato più che in altri film.
Nottingham è dominata dalla corruzione, la gente è affamata e stremata. L’ingiustizia e la povertà in cui vive il suo popolo spingono Robin a un’audace rivolta contro il potente Sceriffo di Nottingham (un magistrale e inaspettato Ben Mendelsohn). Per mettere in atto i suoi propositi ha bisogno di un mentore: il mussulmano, giunto clandestino in Inghilterra dalla Terra Santa, pieno di rancore e di destrezza nei combattimenti anche se ha una mano monca, che inspiegabilmente parla perfettamente inglese diventerà il leggendario Little John (Jamie Foxx). E grazie a lui Robin di Loxley diventa l’eroe della storia che conosciamo.
Il protagonista di questo film vive una doppia identità: da un lato, celato sotto il cappuccio, è un liberatore delle folle, dall’altro è un nobile cortigiano che avvicina lo Sceriffo con le lusinghe per capire dove vanno a finire i beni espropriati alla povera gente. Forse è ancora innamorato di Marion, ma ora la sua missione è restituisce il denaro ai poveri. E poi lei, dopotutto, sta con un altro…
Le peripezie del nostro eroe, del suo amico nero e dell’immancabile Fra Tuck (il folkloristico cantante australiano Tim Minchin) hanno come ovvio bersaglio lo Sceriffo di Nottingham. Occorre un piano per smascherare il potente malfattore ed è soprattutto qui che il film di Otto Bathurst si articola in maniera diversa rispetto al modello tradizionale. Dietro lo sciacallaggio tributario c’è un complotto vero e proprio, messo in piedi dallo Sceriffo e da un misterioso prelato venuto da Roma. La suspence è altissima e le evoluzioni con l’arco pazzesche.
Questo nuovo Robin Hood ha un personaggio in più rispetto al solito, incarnato dalla coralità della popolazione di Nottingham. Lo scopo del protagonista in realtà è proprio quello di scatenare l’ira della gente comune fino a spingerla a reagire. Nell’ultima parte del film, tutti si stringono intorno a Robin per mettere sotto assedio il potere e le milizie che li opprimono. Una gigantesca sommossa popolare che sa di guerriglia, molto coreografica, molto simbolica, quasi necessaria per i tempi che corrono (i nostri). Un film apparentemente banale si carica così di significati sociali, contornati da una messa in scena magniloquente e visivamente grandiosa. Non importa se nell’Inghilterra medievale i poveri non erano vestiti in stile getto di New Orleans, quello proposto da Bathurst è un Robin Hood scatenato.
Negli Stati Uniti Robin Hood l’origine della leggenda è stato spolpato vivo dalla critica. In sala però ha avuto un discreto successo ed è arrivando al 7° posto nella classifica dei film più visti nel solo weekend del Thank’s Giving, incassando in tutto 14 milioni di dollari (a fronte dei 100 milioni sborsati da Di Caprio e soci per la produzione).
In fin dei conti il film era necessario tanto quando il King Arthur di Gay Ritchie –con cui ha in comune la vocazione sfacciatamente action e una buona dose di sana follia. Sicuramente non è in grado di far dimenticare Riddley Scott, Russell Crowe o Kevin Costner, ma ci prova a suon di molotov e fuoco liquido* cercando di stimolare lo spettatore a un’interpretazione sociale.
Alla fine la situazione generale sembra ristabilita a Nottingham. E invece l’ultima sequenza ci lascia con un colpo di scena che apre una nuova storia… Quello che però nessuno si aspetta sono i titoli di coda: a cartone animato, citazionistici e… violentissimi.