La Seconda Guerra Mondiale è uno dei periodi storici più gettonati al livello cinematografico. Il fatto che sia un momento storico così controverso, tragico ma pregno di storie che ci insegnano che la speranza non muore mai, lo rende stranamente interessante da un’ottica puramente narrativa. È anche un quadro suggestivo nel quale ambientare storie del tutto surreali e dissacranti, come in Bastardi senza gloria di Tarantino o come nel più recente Freaks Out di Gabriele Mainetti.

Non fa eccezione Bocche Inutili, nuovo film di Claudio Umberti, che racconta degli orrori nei campi di concentramento in un’ottica prettamente femminile. Scritto insieme a Francesca Nodari e Francesca Romana Massaro, il film sarà proiettato nelle sale italiane dal 25 al 29 aprile.

La storia racconta di Ester, ebrea italiana di 40 anni che viene lasciata sola dopo che la sua famiglia è stata radunata e portata via. Inviata al campo di transito di Fossoli, stringe una forte amicizia con Ada, ma la mano crudele del destino interviene per rimuoverla da lì in breve tempo. Ester non si perde d’animo, nemmeno quando viene mandata in un altro campo, evitando il convoglio verso Auschwitz che l’avrebbe portata a morte certa.
Con Ada hanno così una missione, ovvero salvare il bambino che Ester ha scoperto di portare dentro di sé. In un limbo tra l’incertezza e la fiducia, Ester dovrà fare i conti con il costante rischio di essere tradita, nella speranza di mettere in salvo sia sua figlia che sé stessa.

In base a quanto raccontato dagli autori, la sceneggiatura prende profondo spunto da testimonianze, reali e documentate, di donne sopravvissute all’inferno dei campi di concentramento. La location principale del film è il campo di prigionia e concentramento di Fossoli, nell’omonima località dell’Emilia-Romagna (frazione di Carpi) allestito dagli italiani nel 1942 e oggi Museo-Monumento del Deportato, punto di riferimento per più di 30mila visitatori l’anno.

Per quanto la tematica sia uno dei cavalli di battaglia della narrativa filmica nelle ultime decadi, è ormai sotto gli occhi di tutti che fare un film sul nazismo e sui campi di concentramento è, oggi come oggi, un autogol. A meno che non si riesca a dare ai fatti una personale svolta artistica, imprimendo un’esclusiva visione sugli eventi, magari anche ribaltandone le verità storiche, l’Olocausto rappresenta ormai un argomento scarno e saturo, a tratti abusato.

È sacrosanto che il ricordo di quei tragici orrori viva sempre nella nostra memoria, perché dimenticare sarebbe parte del delitto, ma in campo artistico è stato oramai detto così tanto a riguardo che il rischio di risultare noiosi e banali è più che elevato. In questo caso, la sceneggiatura pecca in quanto a realismo, con dei dialoghi che sembrano a tratti dei monologhi politici più che naturali scambi di parole tra persone.

Vi è un’efficace separazione visiva che si struttura su due livelli: il primo, all’interno del dormitorio, ed il secondo, all’esterno del campo di prigionia. A separare i due vi è la finestra, che qui diventa uno squarcio attraverso cui osservare inermi la crudeltà degli aguzzini all’opera. Si crea quindi una contrapposizione tra la voglia di resistere delle prigioniere, private di qualsivoglia linfa vitale, e la pressante cattiveria di quello che pare essere un esercito di mostri privi di coscienza.