Negli ultimi anni i manifesti ufficiali realizzati per promuovere il Festival di Cannes hanno sempre glorificato il cinema attraverso i suoi volti noti (registi o attori tra cui, nelle recenti edizioni, si ricordano gli occhialoni di Spike Lee e lo sguardo magnetico di Mastroianni) oppure attimi di film iconici (due anni fa una celebre scena di The Truman Show).
Nel 2024 sulla Croisette campeggeranno con sorpresa, invece, le schiene dei protagonisti di Rapsodia in agosto, una delle pellicole meno celebrate – dell’ultimo periodo, quello più intimista – del maestro Akira Kurosawa.
Il direttore artistico del festival Thierry Frémaux, forse anche per la neonata feticizzazione mortifera per la bomba, ma certamente per il riacceso allarme sul fronte ucraino (e non solo), accantona estetizzanti celebrazioni facendo riscoprire un gioiello nipponico che, sulle cicatrici dell’atomica, propugna un viscerale pacifismo.
Tra il frinio assordante come sirene d’allarme o urla (una comunione tra uomo e natura sempre accarezzata nei film di Kurosawa), Rapsodia in agosto si apre sulle montagne giapponesi con l’anziana Kane (Sachiko Murase alla sua ultima interpretazione) la quale ospita i suoi quattro nipoti in attesa che i loro genitori tornino dalle Hawaii.
Recatisi lì per approfittare delle ricchezze di un fratello dell’anziana (trasferitosi molti anni prima in America per cercare fortuna e ora in fin di vita), questi mettono in contatto le due famiglie facendo emergere tutte le divergenze tra Kane, sopravvissuta alla bomba atomica di Nagasaki a causa della quale perse il marito, e il fratello “americanizzato” il cui figlio (Richard Gere) si recherà poi a conoscere la signora.
Attraverso il confronto tra generazioni (nonni – figli – nipoti, in cui l’America è percepita quasi come una sorellastra del Sol Levante) Kurosawa affresca quel Giappone del dopoguerra già reduce dai più radicali mutamenti culturali.
Emergono così le frizioni tra Kane, tanto legata alla memoria tacita, alle tradizioni, a quelle storie di yōkai che la bomba ha contribuito, se non a spazzare via, quantomeno a marginalizzare e le generazioni successive attratte dalle stelle e strisce.
In un movimento speculare e quasi paradossale, difatti, mentre i figli dell’anziana compiranno un viaggio (per fini economici ricordiamo) per allacciare i rapporti con quell’America che per la generazione post-seconda guerra mondiale ha rappresentato una fonte di benessere, i nipoti, invece, fin dalla nascita intrisi di immaginario yankee (le Tartarughe Ninja da loro citate ad esempio), attraverso i racconti della nonna seguono un viaggio alla scoperta delle ferite e delle cicatrici della bomba a Nagasaki.
Rapsodia in agosto nella sua ieratica semplicità narrativa restituisce non solo (e non tanto) la necessità di tramandare quella brutale ingiustizia (le cui allusioni – l’occhio che giganteggia tra le montagne o la lastra nera posta all’ipocentro dello scoppio come il monolito di Kubrick – rimandano a un divino troppo umano, e dunque tremendamente colpevole), ma anche la silenziosa “colonizzazione” culturale che il Giappone ha subito dagli americani.
Se non ci fosse la figura perbenista di Gere a stemperare il discorso verrebbe da esclamare: “Oltre il danno, anche la beffa!”
Akira Kurosawa con Rapsodia in agosto gira un’opera tanto densa nella sua essenzialità da riuscire a riproporsi come ineludibile monito (privo di retorica) contro l’insensatezza delle tragedie della guerra verso cui si ha l’obbligo di tramandare la memoria. Giustamente riportato all’attenzione in questi tempi nevralgici, resta il sublime di quell’ultima scena dell’anziana che corre nella tempesta, piegata come un fuscello, ma imperturbabile nello spirito.