A giudicare da almeno tre titoli di quelli appena passati al festival di Cannes vien da pensare che il cinema di oggi si risolve spesso nella nostalgia del cinema che fu, quel cinema del passato prossimo, ma anche lontano, di cui ripropone personaggi, miti e stile all’interno di un discorso autoriale che non nega la natura popolare del cinema.
I primi due titoli cui ci riferiamo, peraltro di grande richiamo, sono C’era una volta a …Hollywood di Quentin Tarantino e I morti non muoiono di Jim Jarmusch,entrambi fedeli alla poetica dei rispettivi autori ma accomunati dal dichiarato intento di voler essere omaggi verso il cinema su grande schermo di un tempo amato dai due registi diventati esponenti di spicco della post-modernità.
Quello di Tarantino è un film che, nel rievocare la strage di Bel Air compiuta dalla setta Manson in cui morì la moglie di Polanski, si rifà alle opere lisergiche fine anni ’60 ispirate alla controcultura hippies, ma include nella storia di due attori in declino anche riferimenti espliciti al cinema di genere italiano del periodo, quello degli spaghetti western non solo di Leone ma anche di Corbucci e di Margheriti.
Il film di Jarmusch rielabora con ironica finezza in chiave metafilmica la tradizione dello zombie-movie inaugurata nel 1968 da Romero con La notte dei morti viventi (ma prima ancora nel 1932 da Victor Halperin con L’isola degli zombies) e proseguita nei decenni successivi con altri titoli dello stesso Romero ma anche con gli horror di Sam Raimi, Dan O’Bannion e di Wes Craven tutti a forte connotazione splatter e a volte nei toni della black comedy in equilibrio tra paura e risate proprio come accade nel film di Jarmusch.
Al cinema che fu rimanda anche un terzo film visto sempre a Cannes, quello di tutt’altro genere girato da Terrence Malick dal titolo A hidden life dove lo sguardo panico sulla natura tipico del regista si applica a una meditazione spirituale sul rapporto tra umano e divino e sul concetto di libero arbitrio (suggerita dalla vicenda vera dell’auto- sacrifico di un obiettore di coscienza dinanzi alla barbarie nazista).
La dimensione estatica delle immagini che presentano il protagonista in intima fusione con la natura alpina in cui vive immerso (la stessa dimensione lirica già presente nei precedenti cinepoemi del regista La sottilelinea rossa e Thetree of life) ricorda il misticismo panico di un film muto in bianco e nero come La terra girato nel 1930 dal sovietico Dovzenko (mentre il montaggio, la dialettica tra le inquadrature e l’impiego degli obiettivi adottati da Malick evoca le tecniche del “cineocchio” dell’altro sovietico Dziga Vertov autore nel 1929 dell’avanguardistico L’uomo con la macchina da presa) e rimanda anche, sul piano teorico, alla nozione di “estaticità” formulata negli stessi anni da Serghej M. Ejzenstejn (per non parlare, inoltre, del panismo “erotico” di Esta si girato nel 1933 dall’ungherese Gustav Machaty e famoso per la celebre scena con l’attrice Hedy Lamarr che corre nuda tra i boschi).
Il cinema, dunque, si nutre di cinema e continuerà ad esistere finchè attingerà al nostro inconscio collettivo ottico. Per il suo essere bergsoniana sintesi di “materia” e “memoria” il cinema, in quanto arte realizzata, è sempre tutto contemporaneo e per questo i Tarantino e i Malick di oggi possono dialogare con i Leone e i Dovzenko di ieri in un eterno presente che è quello dove abita l’arte di ogni epoca e quale che sia la forma in cui si esprime (e il successo di pubblico avuto di recente dal poetico e malinconico biopic Stanlio e Ollio ne è un’ulteriore prova).