Premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, Cesare deve morire dei fratelli Taviani racconta il teatro dietro le sbarre del carcere romano di Rebibbia.
Cesare deve morire col suo azzeccatissimo bianco e nero che, come fa la la prigione, neutralizza e appiattisce ogni slancio vitale, Paolo e Vittorio Taviani raccontano un momento preciso della vita di alcuni detenuti del carcere di Rebibbia che, attraverso il teatro, ritrovano aspetti dimenticati delle loro vite.
Lo spettacolo teatrale che si sta preparando è il celebre Giulio Cesare di William Shakespeare e i due registi, col loro docu-film parallelo, ci permettono di assistere alla genesi della performance fino al suo epilogo; dai provini dei detenuti all’assegnazione dei ruoli, dalla scelta di far recitare ognuno col proprio dialetto, in modo da dare un senso d’unione ancora più profonda, fino alle prove così intense da riuscire a mescolare realtà e finzione.

E’ questa la grande abilità dei Taviani, in Cesare deve morire, quella del saper distinguere realtà carceraria e finzione scenica, ma all’occorrenza saper anche sovrapporle perfettamente tanto da far scattare una lecita domanda nello spettatore: staranno ancora recitando? Sì, o forse no… il fatto è che i detenuti, condannati chi per criminalità organizzata, chi per reati vari, chi per una decina d’anni e chi con il fatidico “fine pena mai”, quando parlano degli uomini d’onore, dell’antica Roma al tempo di Cesare, sanno di cosa stanno parlando, di quell’onore che hanno conosciuto, diverso ma a cui, comunque, hanno creduto. Lo stesso per il quale ora scontano la loro pena. E ancora, quando maneggiano le passioni, la rabbia, la vendetta, la congiura, l’omicidio brutale e la morte, sanno di cosa parlano perché l’hanno vissuto o visto.
Tutta la narrazione è giocata su questo filo sottile tra realtà dietro le sbarre e finzione teatrale, tra battute imparate dal copione e frasi di vita vera, o almeno vera in quel piccolo mondo recluso di Rebibbia.
da quando ho conosciuto l’arte sta cella è diventata una prigione
Solo sul palcoscenico c’è il colore, all’inizio e alla fine del film, come se l’arte riuscisse a legittimare quelle vite, in quel preciso momento, tanto da bucare il bianco e nero e colorare la pellicola.

Loro, i protagonisti, mostrandosi al pubblico, smettono per qualche ora di essere criminali e diventano solo attori, e poi si torna dentro, come dev’essere, dietro le sbarre chiuse a più mandate. Prima gli applausi fragorosi e poi il silenzio della detenzione.
Non è la prima e non sarà l’ultima volta che la prigione ci viene raccontata attraverso l’arte e viceversa, ma con Cesare deve morire i celeberrimi fratelli Taviani hanno saputo cogliere sapientemente i momenti di profonda riflessione dei detenuti, quegli attimi intimi in cui ripensano ai propri errori pronunciando le battute shakesperiane, non così tanto lontane dal loro vissuto.
Il film Cesare deve morire, del 2012, è stato poi il candidato italiano all’Oscar come miglior film straniero nel 2013.