Lo sappiamo, un film che non riesce a farci identificare con i personaggi della storia è un film fallito. Questo difetto cercano di evitarlo un po’ tutti i film di largo consumo con il ricorso a quei procedimenti ottici e narrativi che la storia del cinema ha collaudato nel corso degli anni in un continuo processo di adeguamento alla sensibilità del pubblico del momento. Ma c’è di più: ci sono film, molto pochi, che ci fanno diventare protagonisti della storia mediante invenzioni tecnico-formali che provocano un rapporto empatico tra chi guarda in sala e chi agisce sullo schermo. Nel loro libro appena pubblicato Lo schermo empatico (Cortina Editore,2015) gli studiosi Vittorio Gallese e Michele Guerra analizzano il rapporto tra illa casa del diavolo cinema e le neuroscienze per rendere conto della dimensione empatica presente in alcuni film sulla base della teoria dei “neuroni specchio” il cui funzionamento è all’origine dei fenomeni di immedesimazione durante la visione di un film. Tra gli esempi di sequenze dove questo accade gli autori citano quella celeberrima del bambino che scorrazza sul triciclo nel corridoio dell’albergo maledetto in Shining e dimostrano come l’effetto sia ottenuto grazie all’impiego della steady-cam che ci fa entrare dentro la vicenda attivando la sostituzione di noi con il bambino e questo in virtù dello slittamento progressivo dal piano denotativo a quello connotativo per cui la cinepresa diventa autonoma rispetto alla pura descrizione e passa a suscitare la presenza di un Male invisibile ma avvertibile.

notoriousA questo esempio riportato dai due studiosi ne andrebbe aggiunto un altro in cui la cinepresa si sgancia dal racconto e ci rende protagonisti, quella finale di La casa del diavolo di Rob Zombie in cui la steadycam continua il suo sul paesaggio desertico volo verso l’orizzonte anche quando i protagonisti che essa seguiva nella loro corsa in auto sono usciti dalla visuale dopo aver svoltato dietro una curva. Un altro caso di effetto empatico suscitato dal ricorso al primo-piano con stacco è quello dell’inquadratura finale di Medea di Pasolini con il volto stravolto di Medea che maledice il traditore e lo fa guardando in macchina in una forma di interpellazione che chiama in causa noi spettatori in quanto eredi del greco traditore che dopo aver conquistato l’Oriente mitico della Colchide lo ha abbandonato in una condizione di schiavitù. Altri esempi meriterebbero un’analisi, primi tra tutti quelli offerti da tante sequenze di Hitchcock del quale Gallese e Guerra citano una famosa scena di Notorius. Resta da vedere come può prodursi l’empatia nell’odierno cinema rilocato e dislocato che lavora in sinergia con i nuovi apparati della comunicazione audiovisiva. Comunque, il cinema vivrà ancora a lungo, quello simpatico, quello antipatico e anche per fortuna quello empatico.