Il 21 novembre 1986 non è una giornata come le altre, perlomeno per chi ama il cinema, in particolare l’animazione, quella vera, quella che trattava il pubblico dell’infanzia da giovani adulti. 35 anni fa, usciva Fievel Sbarca in America, un piccolo gioiello della settima arte, firmato da quel Don Bluth, che aveva lasciato sdegnato la Disney sempre più in crisi di creatività e genuinità.

Tra i tanti che Bluth ha creato, nessuno ha mai potuto superare questa sontuosa metafora storica della diaspora, della grande emigrazione forzata che interessò l’Europa, schiacciata dalle guerre, dalla povertà e carestia, che spinsero milioni di persona in cerca di una vita migliore al di là dell’oceano, negli Stati Uniti.

Fievel Toposkovich, giovane topolino ebreo, assieme al padre, alla madre e alle due sorelle, lascia l’Ucraina schiacciata dai cosacchi, sperando di giungere in un paese senza feroci felini sulle loro tracce, dove vi sia opportunità e libertà, dove ognuno possa avere la possibilità di creare il proprio destino.
Separato dalla famiglia in mare aperto, a causa di un terrificante uragano, il giovane scoprirà naturalmente, che in quella New York che accoglieva negli stessi anni milioni di migranti umani armati di valigia con lo spago, sogni e fame, vige la legge del più forte, del più astuto e del più crudele.

Ad oggi è giusto domandarsi se oggettivamente il Rinascimento Disney sarebbe mai esistito senza questo film, senza Don Bluth, che intuì come ormai la casa di Topolino, non facesse altro che ripetere formule trite e ritrite. Fu lui a costringere con la sua competizione il colosso ad andare oltre la sperimentazione visiva, capendo che il pubblico si era evoluto, non bastavano più canzonette e animali antropomorfi fini a se stessi, bisognava puntare a parlare del mondo, dell’uomo, delle sue tragedie e conflittualità. 

Fievel Sbarca in America da questo punto di vista, ha segnato un momento di svolta, una cesura totale con ciò che vi era prima.
Prima di quel 21 novembre 1986, in cui il pubblico fu travolto da un’animazione sicuramente molto più cupa ed impegnata e da un racconto in cui la dimensione del kolossal incontrava l’autorialità esistenzialista.

L’animazione era bene o male spensieratezza. Invece con Fievel, grazie anche alle straordinarie musiche di James Horner, Barry Mann e Cynthia Weil, la sceneggiatura di Judy Freudberg e Tony Geiss, fu capace di spingersi oltre, di parlarci di quale tragedia immane era lasciare la propria terra, le proprie radici, dover accettare un destino in cui la propria cultura, persino il proprio cognome, venivano modificate, trasformate. Il tutto ad uso e consumo di un paese che ancora oggi insegue il miraggio di un melting pot non solo di facciata.

Grazie a Bluth, davanti ai nostri occhi vi fu il palesarsi della metafora animalesca sulla tribolazione del proletariato, degli operai distrutti dalle angherie, dagli industriali, sulle fatiche immani dei migranti in fuga dalla povertà.

Da questo punto di vista, Fievel Sbarca in America è stato un precursore, è stato motore di un rinnovamento semantico e semiotico incredibile, forse mai abbastanza sottolineato, forse per la sferzante opera decostruzione storica e di demitizzazione del sogno americano che ha sempre portato con sé. Qualcosa che al pubblico a stelle e strisce forse non piacerà mai del tutto.