Il film Netflix Il divin Codino dedicato a Roberto Baggio, il 10 italiano per eccellenza, è un’opera spenta, prevedibile e fin troppo incerta sulla sua natura

“Alto…e il mondiale è finito, lo vince il Brasile”.

Chi c’era quella sera d’estate del 1994 (la più calda del XX secolo) si ricorderà finché avrà vita il suono amaro delle parole del grande Bruno Pizzul, che ci facevano capire che il sogno azzurro ad USA ’94 era finito.
Si ricorderà soprattutto di lui, del Divin Codino, Roberto Baggio da Caldogno, del nostro profeta del gol, che bene o male, con quell’errore dal dischetto contro la banda di Dunga, si è fissato nella memoria collettiva.

Roberto Baggio è stato il più grande calciatore italiano di sempre?
Si dibatte molto su questo, ma sul fatto che sia stato il più amato c’è poco da discutere.
Proprio questo amore così viscerale è il problema (davvero grosso) de Il Divin Codino: troppa aspettativa per questo film Netflix, sopravvalutato ben prima della sua uscita, proprio per la potenza legata al nome di Roberto. Il che spiega anche la profonda delusione di gran parte del pubblico e della critica di fronte al risultato finale del prodotto realizzato da Letizia Lamartire e dagli sceneggiatori Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo.

Il Divin Codino è strutturato per parlarci soprattutto dei drammi umani e personali di Baggio, del difficile rapporto con il severo padre Florindo (Andrea Pennacchi), della spiritualità buddista e della sua carriera tra trionfi e cadute.
Della leggenda con gli scarpini Roberto c’è quasi tutto: oltre mondiali americani, largo spazio viene dato al percorso da calciatore: l’infortunio con la maglia del Vicenza, il rilancio a Firenze, il parziale oblio dei primi anni 2000 e la ritrovata gloria grazie alla chiamata del Brescia di Carletto Mazzone (Interpretato da Martufello, a metà tra recita e parodia).
Mancano i tempi agrodolci con le maglie di Juventus, Milan e Inter. Viene appena accennata la grande delusione della mancata convocazione in nazionale per i Mondiali in Corea e Giappone del 2002, così come la gioia per il trionfo al pallone d’oro o i bellissimi mondiali di Francia 98 e neanche un cenno sul periodo al Bologna e sul complicato rapporto con Ulivieri, allora allenatore della squadra felsinea.
Il vero assente però è il pallone attorno al quale erano state strutturate diversi biopic sul calcio.

Andrea Arcangeli, l’interprete davvero somigliante (soprattutto di profilo) di Baggio, se la cava in realtà molto bene e propone un personaggio timido, chiuso, insicuro, sovente un po’ vittimista, ma animato da una grande gioia per il pallone che come già detto rotola pochissimo nelle inquadrature.

La ricostruzione storica è molto approssimativa come anche le ambientazioni, la tecnologia rudimentale dei primi telefoni cellulari e i costumi non proprio precisi per gli anni ’90 e 2000. A queste carenze si poteva soprassedere se la regia fosse stata presente e corposa, invece amplifica l’incertezza del tono e sembra che non era chiarissimo cosa dovesse essere Il Divin Codino. La regista scivola a volte nelle peggiori atmosfere da Rai Fiction o Mediaset, e si adagia su una melensa raffigurazione epica del successo e della gloria, quando invece Roberto Baggio è stato la discrezione dell’immaginazione, il cammino solitario di un “diverso” dagli altri, amato perché tale in un paese di conformisti.

Forse il problema è stato non aver nè scelto solo un periodo preciso, ad esempio i mondiali del ’94, nè di aver snocciolato ogni aspetto della vita di uno dei più grandi calciatori italiani.
Un personaggio amato trasversalmente da tutti come Roby Baggio, meritava una serie tv di più ampio respiro, sulla falsa riga di Speravo de Morì Prima, oppure una docu-serie come The Last Dance, realizzata sempre da Netflix per celebrare Michel Jordan.

Fare un buon film sul calcio è veramente difficile: pessima la super sponsorizzata saga di Goal! e ancora si sentono gli strali di Pelé per quel delitto di Birth of a Legend; soltanto Fuga per la Vittoria, Hooligans, Jimmy Grimble, il Maledetto United, Sognando Beckham e il Mio Amico Eric sono stati capaci di prendersi un posto nella settima arte. Si trattava comunque di film in cui il calcio non veniva preso come motore principale della narrazione. Inoltre poco prima de Il Divin Codino c’era stato Io che sarò Roberto Baggio, ma era un una serie di documentaristica pura e non voleva romanzare la storia.

Roberto Baggio meritava un film degno di essere chiamato tale, in fondo per quello che ha dato al nostro popolo del pallone (e non) è una leggenda, la più amata e di certo non andava offesa con una narrazione sterile e deludente.
La speranza è che ora qualcuno faccia tesoro di questi errori, di questo zoppicante Il Divin Codino, e capisca cosa serve, cosa bisogna fare per farci ricordare che fortuna abbiamo avuto nel tifare Roberto Baggio da Caldogno, l’essenza del calcio italiano.