Fino alla fine degli anni ’70, l’occupazione nazista in Francia era un argomento che era stato raramente esplorato nel cinema francese.  Quei pochi film che avevano affrontato “les années noires”, vale a dire l’intervallo temporale tra il 1940 e il 1944, tendevano a concentrarsi sull’eroismo di coloro che avevano lottato contro la resistenza e sulla venalità di chi decise di collaborare con i tedeschi occupanti.

In questo senso, la svolta arrivò con il documentario storico Le Chagrin et la pitié (1969), diretto da Marcel Ophüls, nel quale si metteva a nudo la realtà di quegli anni spinosi, ben distante da quella ritratta nei film dell’epoca. La maggioranza della popolazione, infatti, non figurava né eroi, né criminali, ma piuttosto vedeva persone spaesate ma decise a salvaguardare la propria quotidianità nel modo più prudente possibile.

È in questo contesto che s’inserisce François Truffaut, guardando in particolare al suo film Le dernier métro, tradotto in Italia come L’ultimo metrò (1980), film che vede il regista francese determinato a ritrarre nel modo più autentico possibile gli anni della guerra, aprendo una strada per tutti i cineasti che lo seguiranno.

l'ultimo metrò recensione

Nonostante l’accuratezza storica, il terzultimo film di Truffaut si presenta come una favola teatrale, in cui ogni fotogramma è pervaso dalla sua ideologia di poetica, nonché dalla sua anima.

La storia va in scena nel Teatro Montmartre, nel pieno della Seconda guerra mondiale. Marion (Catherine Deneuve) è un’attrice-direttrice intenta a portare in scena, tra mille difficoltà, una piece scandinava per salvaguardare la vita di suo marito, un commediografo ebreo, obbligato a rinchiudersi nella cantina del teatro per non essere scovato. Con il sostegno di un’abile compagnia e da un attore molto carismatico (Gerard Depardieu), Marion porterà alla luce il suo progetto sopravvivendo all’occupazione nazista.

Nello sviluppo della sceneggiatura de L’ultimo metrò, Truffaut fu fortemente influenzato dal telefilm Carola, di Jean Renoir (riadattato dagli americani nel 1973) e dalla pellicola di Ernst Lubitsch To Be or Not To Be, del 1942. Nonostante ciò, molti dei personaggi messi in scena si basano su persone reali, tant’è che la storia di Marion s’ispira a quella di Margaret Leibovici, ballerina che lavorò nel Folies Bergèrelie, un noto music-hall di Parigi.

In una delle più celebri partnership cinematografiche francesi, Gerard Depardieu e Catherine Deneuve si completano in modo ideale. Entrambi gli attori sono accomunati da una sorprendente incongruenza tra la personalità reale e l’aspetto esteriore. La solida presenza fisica di Depardieu è subito smentita da un animo dolce e sensibile, tratti che lo rendono tragicamente vulnerabile. Allo stesso modo, Deneuve è contraddistinta da una tenacia e un’autostima che sembrerebbero impronosticabili, a primo avviso.

L’ultimo metrò non è solo il mesto ritratto di uno dei periodi più bui della storia, in cui un paese messo in ginocchio da un’occupazione feroce trova nell’aggrapparsi allo spirito libero del cinema e del teatro l’unico modo per preservare la propria integrità. Trattasi infatti anche di un moto d’ orgoglio, proprio di chi non accetta alcun tipo di restrizioni o soprusi, credendo ciecamente nella forza dell’amore.
Il senso dell’intera opera di Truffaut si ritrova, ancora una volta, racchiuso in questo concetto essenziale.

Con la sua palette ocra e l’ambientazione limitata, quello di Truffaut è il film che offre una delle più potenti evocazioni cinematografiche del periodo dell’occupazione nazista in Francia. L’identità scissa di una nazione che vive sotto un potere tiranno si riflette nella duplice natura di ciascuno dei protagonisti che, come tutti i francesi, devono scendere a compromessi pur di sopravvivere. Il regista con questa storia indica la via della lunga battaglia per la nostra vita e la nostra serenità, dove l’unica arma per essere felici diventa l’amore incondizionato.